Intelligenza Artificiale, Innovazione e Trasformazione Digitale

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La guerra secondo l’algoritmo: perché l’Europa combatte ancora con le slide

Si continua a parlare di rivoluzioni militari come se fossero aggiornamenti software, con l’entusiasmo di un product manager davanti a un nuovo rilascio beta. Droni, intelligenza artificiale, guerre trasparenti e interoperabilità digitale sono diventati il mantra ricorrente dei think tank euro-atlantici. La guerra, ci dicono, è cambiata. Il campo di battaglia sarebbe ormai un tessuto iperconnesso dove ogni oggetto emette segnali, ogni soldato è una fonte di dati, ogni decisione è filtrata da sensori, reti neurali e dashboard. Tutto bello, tutto falso.

Sul fronte orientale dell’Europa, tra gli ulivi morti e le steppe crivellate di mine, la realtà continua a parlare un’altra lingua. La lingua della mobilità corazzata, del logoramento, della saturazione d’artiglieria e, sì, anche della carne. In Ucraina si combatte come si combatteva a Kursk, con l’unica differenza che oggi il drone FPV è la versione democratizzata dell’artiglieria di precisione. Il concetto chiave, però, resta lo stesso: vedere, colpire, distruggere. Con un twist: adesso si può farlo a meno di 500 euro e senza bisogno di superiorità aerea.

L’algoritmo di Deepseek comanda: la guerra intelligente ha già superato i generali

Quando un modello linguistico genera in 48 secondi ciò che un comandante impiega 48 ore a pianificare, non si parla più di innovazione. Si parla di mutazione genetica della guerra. Non è uno scenario futuristico né una trovata pubblicitaria da film di Hollywood. È quello che sta succedendo a Xian, nella provincia nord-occidentale della Cina, dove un team di ricerca dell’Università Tecnologica ha combinato large language models (LLM) e simulazioni militari con una naturalezza che ricorda più uno script di Black Mirror che un report accademico.

Il protagonista silenzioso della rivoluzione si chiama DeepSeek. Nome da start-up emergente, anima da mostro strategico. È un modello LLM nato a Hangzhou che, per efficienza e versatilità, ha fatto sobbalzare Washington e irritato il Pentagono, al punto che perfino Donald Trump lo ha definito una “wake-up call” per l’industria tech americana. Il perché è semplice: DeepSeek non si limita a produrre testo o contenuti generici come ChatGPT. Riesce a generare 10.000 scenari militari plausibili, coerenti, geolocalizzati e dinamicamente adattivi in meno di un minuto.

AI estinzione 2050: quando il rischio non è più fantascienza

Immagina un’AI che controlla un silos nucleare, rilascia virus sintetici e altera il clima. Non è la trama di “Terminator”, ma uno dei tre scenari valutati dalla RAND, e l’unico modo per escluderlo? Capire se davvero l’AI può farlo. Ecco perché dobbiamo leggere questo report come una check list nucleare dei nostri timori post-AGI.

L’ultimo report della RAND, firmato da Michael J. D. Vermeer, Emily Lathrop e Alvin Moon e pubblicato il 6 maggio 2025, scuote il dibattito pubblico sull’Intelligenza Artificiale. Battezzato On the Extinction Risk from Artificial Intelligence, è un tentativo ardito – quasi folle – di analizzare se l’IA possa effettivamente cancellare l’umanità dalla faccia della Terra.

L’intelligenza artificiale nel decision-making strategico per la pace: un modello ADM

L’integrazione dell’AI nei processi decisionali strategici non è più una mera ipotesi futuristica, bensì una realtà che nel 2024 ha visto un’accelerazione esponenziale grazie a studi pionieristici e piattaforme tecnologiche d’avanguardia. La complessità degli scenari geopolitici e la necessità di anticipare crisi in tempo reale hanno spinto università, centri di ricerca e governi a investire in sistemi di augmented decision-making (ADM) capaci di fondere l’intelligenza algoritmica con il giudizio umano, creando una sinergia non priva di contraddizioni e cinismo quasi inevitabile in un mondo dove l’errore umano è ormai intollerabile.

Trump gioca con le bombe come fossero tweet: il Pentagono si prepara, ma la guerra resta un’opzione teatrale

Il mondo trattiene il fiato, mentre a Washington si trattiene il senso del ridicolo. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth, ex volto televisivo tramutato in burocrate con accesso al bottone rosso, ha detto tutto senza dire nulla davanti al Senato: la decisione finale spetta al Presidente Donald Trump. Che, com’è suo stile, si comporta come se stesse decidendo tra un cheeseburger e un Big Mac piuttosto che se entrare in guerra con l’Iran.

L’Europa scopre che l’autonomia strategica non si estrae da sola

C’è un paradosso che aleggia nell’aria rarefatta del Paris Air Show, tra voli acrobatici e salotti aziendali climatizzati: si parla di sovranità industriale, ma con componenti cinesi incastonati nei circuiti dei nostri caccia. Boeing, nella persona del vicepresidente Turbo Sjogren, ha avuto il coraggio — o l’astuzia — di dirlo ad alta voce: l’Europa deve svegliarsi. Non sarà mai autonoma finché continua a costruire la sua difesa con metalli raffinati a Pechino.

Quando l’intelligenza artificiale indossa l’uniforme: così OpenAI ha messo piede nel Pentagono

Sembra il copione di un episodio di Black Mirror, ma è solo cronaca: OpenAI, la stessa che ha trasformato l’intelligenza artificiale generativa in un assistente per studenti in crisi e copywriter disoccupati, ora gioca con le regole dell’intelligence a stelle e strisce. “OpenAI for Government” è il nome sobrio (e vagamente orwelliano) del nuovo programma lanciato negli Stati Uniti. Nessuna fanfara, ma un pilota da 200 milioni di dollari con il Dipartimento della Difesa come cliente zero. Se ChatGPT era il giocattolo dei marketer, ora è il soldato dei burocrati.

Droni fedeli e guerra algoritmica: la nuova arma segreta Americana non vola ancora, ma già fa tremare Pechino

Il Pentagono non ha bisogno di decollare per far capire che intende restare in cima alla catena alimentare tecnologica globale. Con l’annuncio dei test a terra dei nuovi droni da combattimento YFQ-42A e YFQ-44A, gli Stati Uniti lanciano un messaggio diretto e in alta frequenza a Pechino: l’era dei caccia autonomi non è un esperimento accademico, è una corsa all’egemonia che sta per prendere quota.

La NATO prova a contare i fantasmi: guerra di parole, guerra d’ombre

C’è una guerra che non si combatte coi droni, né con carri Leopard: si combatte con gli engagement. E la Nato, o meglio il suo Strategic Communications Centre of Excellence (un nome che sembra uscito da un seminario aziendale del 2012), ha appena pubblicato il Virtual Manipulation Brief 2025, un’analisi che assomiglia più a una radiografia dell’invisibile che a un rapporto di intelligence classico. Qui non si cercano carri armati, si cercano pattern. Coordinamenti sospetti. Narrativi convergenti. Troll vestiti da patrioti.

E i numeri fanno male. Il 7,9% delle interazioni analizzate mostrano chiari segnali di coordinamento ostile. Non stiamo parlando di un paio di bot russi nostalgici di Stalin che si retwittano a vicenda, ma di una sinfonia digitale ben orchestrata, che attraversa dieci piattaforme diverse – non solo X (che ormai è diventato l’equivalente social di una vecchia radio a onde corte), ma anche YouTube, Telegram, Facebook, Instagram e altre tane più oscure dove l’informazione diventa disinformazione e viceversa.

Anthropic lancia Claude Gov, l’intelligenza artificiale patriottica che non fa troppe domande

C’è un curioso dettaglio nelle democrazie moderne: ogni volta che una tecnologia diventa abbastanza potente da riscrivere le regole del gioco economico, qualcuno in uniforme entra nella stanza e chiede di parlarne a porte chiuse.

Così è stato per internet, per i satelliti GPS, per il cloud, e oggi ça va sans dire per l’intelligenza artificiale. La nuova mossa di Anthropic lo conferma: la startup fondata da transfughi di OpenAI ha appena annunciato Claude Gov, un set di modelli AI personalizzati creati su misura per le agenzie dell’intelligence americana. Il claim? “Rispondono meglio alle esigenze operative del governo.” Traduzione: sanno leggere, sintetizzare e suggerire azioni su documenti classificati, in contesti ad alto rischio geopolitico. Senza tirarsi indietro.

Palantir diventa il cervello oscuro dell’amministrazione Trump

Certe notizie sembrano uscite da un romanzo distopico, ma poi scopri che sono firmate New York Times e ti rendi conto che la realtà ha superato di nuovo la sceneggiatura di Hollywood. Palantir, la creatura semi-esoterica di Peter Thiel, si è presa il cuore pulsante della macchina federale americana: i dati. La nuova amministrazione Trump — reincarnata, più determinata e algoritmica che mai — ha deciso che sarà Palantir a orchestrare l’intelligenza operativa dello Stato.

Centodiciassette milioni di dollari. È questa la cifra già ufficializzata in contratti software con il Dipartimento della Difesa, Homeland Security e altre agenzie federali. Ma è solo l’inizio. Quando un’azienda diventa il fornitore ufficiale di logica predittiva dell’apparato statale, i soldi sono il dettaglio meno interessante.

Taiwan scommette sulla guerra asimmetrica: in arrivo i droni suicidi marini del “Progetto Kuai Chi”

C’è qualcosa di profondamente simbolico nel nome scelto per il nuovo giocattolo militare made in Taiwan: “Kuai Chi”, ovvero la traslitterazione di 快漆, che ricorda il dio della guerra nella mitologia cinese. E no, non è un caso. Quando le onde del Pacifico diventano il nuovo fronte della deterrenza, non si lascia nulla al caso. Nemmeno il nome.

Taipei, pressata dall’incessante martellamento retorico e operativo del Dragone cinese, ha deciso di rispondere non con portaerei da sogno o sommergibili nucleari da fantascienza, ma con un’arma semplice, economica, dannatamente efficace: un drone marino kamikaze. Il tipo di arma che, se usata bene, può costare 250.000 dollari… ma affondare una fregata da 500 milioni. Asimmetria pura. Poker psicologico. Esercizio di guerra post-moderna, in cui un piccolo robot può mettere in crisi la strategia navale di un gigante.

Guerra fredda 2.0: chip, aerei e terre rare. Cronaca di un decoupling annunciato

Sotto la superficie diplomatica levigata dei colloqui di Ginevra, si consuma l’ennesimo atto del disaccoppiamento tecnologico tra Stati Uniti e Cina. Niente più sorrisi da foto opportunity, solo freddi fax del Dipartimento del Commercio americano. La Silicon Valley ha ricevuto l’ordine: smettere di esportare strumenti di Electronic Design Automation (EDA) a Pechino. Cadence, Synopsys, Siemens EDA: messi in riga, come scacchi sacrificabili sulla scacchiera geopolitica dei semiconduttori.

I colpi di scena non finiscono qui. La Casa Bianca ha anche messo in pausa alcune licenze concesse a fornitori americani per collaborare con COMAC, il Boeing cinese che sogna il decollo del C919, l’aereo destinato a spezzare il duopolio Airbus-Boeing. L’alibi? Le recenti restrizioni cinesi sulle esportazioni di terre rare. Il messaggio tra le righe: se ci provate con i minerali, noi chiudiamo i rubinetti dell’ingegneria.

Fusione strategica in Cina tra Sugon e Hygon: la risposta silenziosa al dominio Americano

Nel teatro globale della supremazia tecnologica, dove gli Stati Uniti recitano il ruolo di guardiani del mercato dei semiconduttori e dei supercomputer, la Cina risponde con mosse che sembrano poco appariscenti ma che in realtà hanno la forza di un terremoto. La fusione tra Sugon, il colosso cinese dei supercomputer, e Hygon, il designer di chip specializzato in CPU e acceleratori per intelligenza artificiale, è la quintessenza di questa strategia sotterranea, raffinata e, per certi versi, cinica.

Siamo in un’epoca in cui la tecnologia non è più solo una questione di innovazione, ma di geopolitica pura, dove le restrizioni commerciali si trasformano in armi. Washington ha inserito Sugon nella sua Entity List, bloccandogli l’accesso ai chip americani più avanzati. Il risultato? Un’accelerazione forzata verso l’autosufficienza, un mantra ripetuto fino alla nausea da Pechino ma che, questa volta, ha un peso reale. La fusione non è solo un’operazione finanziaria: è una dichiarazione di guerra silenziosa, un modo per consolidare le forze e aggirare il cappio tecnologico imposto da Washington.

Un salto quantico nell’allenamento AI: la sfida cinese che spaventa la silicon valleyCina, Osservatorio,

Quando una società cinese di trading quantitativo decide di entrare nel ring dell’intelligenza artificiale, non si limita a fare da spettatrice. Shanghai Goku Technologies, fondata nel 2015, ha appena buttato sul tavolo un paper destinato a scuotere le fondamenta della ricerca AI globale. Non è un progetto qualunque, ma una proposta che mette in discussione i metodi tradizionali di training, quelli che dominano il mercato e che OpenAI, Microsoft e altre megacorporazioni hanno adottato come oro colato: il fine-tuning supervisionato (SFT) e il reinforcement learning (RL). Goku parla di un framework ibrido adattativo step-wise, chiamato SASR, che sarebbe più efficiente e, soprattutto, più umano nel modo in cui sviluppa capacità di ragionamento.

Il ministero della difesa britannico si gioca la guerra futura sull’algoritmo

Sei pronto per una guerra combattuta da software e sensori invece che da uomini? No? Peccato, perché il Regno Unito ha deciso che è esattamente lì che stiamo andando. Il segretario alla Difesa britannico John Healey, con una dichiarazione dal sapore vagamente apocalittico e una strategia che sembra uscita da un pitch di venture capital del 2015, ha annunciato che l’intelligenza artificiale sarà il cuore pulsante della nuova Strategic Defence Review.

Per capirci: niente più carri armati che impiegano quindici anni per arrivare (ciao, Ajax), ma algoritmi pronti in settimane, magari scritti da contractor che il giorno prima lavoravano su un’app per ordinare sushi. Il keyword principale? Intelligenza artificiale militare. Le keyword collaterali? Difesa britannica, procurement bellico. Il tono? Quello dell’urgenza tecnologica a velocità di guerra.

L’intelligenza artificiale va in guerra: Pechino riscrive le regole del caos digitale 解放军报

Nel mondo dell’intelligenza artificiale applicata alla guerra, i cinesi non stanno giocando alla pari. Stanno giocando sporco. E se la notizia che la PLA (People’s Liberation Army) ha finalmente messo nero su bianco le proprie ambizioni anti-AI in un articolo ufficiale sul PLA Daily ti sembra un evento tecnico, sappi che non lo è. È dottrina militare, strategia geopolitica, ma soprattutto un avvertimento digitale con sfumature da Guerra Fredda 2.0. Solo che ora i missili sono algoritmi e i soldati parlano in Python.

Il bersaglio? I tre pilastri che reggono qualsiasi sistema di intelligenza artificiale degno di questo nome: dati, algoritmi, potenza di calcolo. Ed è proprio qui che la Cina vuole colpire. Non frontalmente, ovviamente: sarebbe da ingenui. La nuova guerra si vince sabotando il cervello dell’avversario, non sfondandogli la porta d’ingresso.

Eric Schmidt Il vero potere dell’AI? Non è il linguaggio. È la guerra.

Eric Schmidt, ex CEO di Google e attuale oracolo tecnologico con l’aria di chi ha già visto il futuro (e ci ha investito), non crede all’hype sull’intelligenza artificiale. No, pensa che l’hype sia troppo poco. Una provocazione? Sì, ma anche una dichiarazione di guerra. Perché quello che Schmidt sta dicendo con la calma glaciale di chi ha già giocato questa partita nel silenzio dei boardroom è che mentre il mondo gioca con i prompt di ChatGPT, dietro le quinte si stanno scrivendo gli algoritmi della dominazione globale.

Tutti concentrati sul linguaggio, sulle email che si scrivono da sole, sulle poesie che sembrano uscite da una scuola di scrittura di Brooklyn. Ma intanto, l’AI sta imparando a pianificare. A strategizzare. A ragionare in avanti e all’indietro come un generale che ha letto troppo von Clausewitz e ha una connessione neurale con l’intero Atlante geopolitico.

China, il boom delle fabbriche robotizzate che nessuno racconta ma tutti dovrebbero temere

La produzione industriale di robot in Cina è esplosa più di un 50% ad aprile rispetto all’anno precedente, un dato che non si limita a parlare di numeri, ma racconta una vera e propria corsa al dominio tecnologico su scala planetaria. I numeri ufficiali del National Bureau of Statistics sono chiari: 71.547 unità prodotte in un solo mese, un balzo del 51,5% anno su anno, che straccia con violenza la crescita del 16,7% registrata a marzo e il già interessante 27% del bimestre gennaio-febbraio. Una crescita che – se fosse un animale – sarebbe un velociraptor pronto a sbranare il mercato globale.

Se consideriamo i primi quattro mesi dell’anno, la produzione ha raggiunto la cifra impressionante di 221.206 robot, con un’accelerazione che passa dal 9,9% dell’anno scorso a un robusto 34,1% di incremento. Dimenticatevi l’idea romantica di fabbriche piene di operai che lavorano con macchinari antiquati: la Cina sta correndo verso una nuova era in cui i robot industriali non sono più una curiosità futuristica, ma il cuore pulsante della sua produzione tech.

KAUST La Silicon Valley del deserto non è un miraggio: è un’acquisizione ostile travestita da innovazione

C’è un luogo, immerso nel nulla della costa saudita, che sembra uscito da una simulazione di Ray Kurzweil sotto LSD. Un’enclave ipertecnologica, dotata di un supercomputer che fa impallidire il parco server di Google, incastonata in una monarchia teocratica che, fino a due minuti fa, vietava alle donne di guidare. Si chiama KAUST, King Abdullah University of Science and Technology, e se non ne hai mai sentito parlare è perché funziona esattamente come dovrebbe: silenziosa, chirurgica, determinata. Non è un’università. È un vettore strategico con la scusa dell’accademia.

Star Compute Quando l’intelligenza si fa orbitale: la Cina riscrive il concetto di supercomputer

La Cina non si accontenta più di dominare il mercato dei chip, le filiere delle terre rare o l’intelligenza artificiale generativa. No, ora punta direttamente allo spazio. Ma non con poetici voli lunari o sogni marziani alla Musk: parliamo di qualcosa di ben più concreto, funzionale e, ovviamente, strategico. Dodici satelliti sono appena stati lanciati nell’ambito del programma “Star Compute”, primi mattoni di una futura costellazione da 2.800 unità che, detta come va detta, sarà un supercomputer orbitante. Un mostro distribuito capace di elaborare i propri dati senza dover chiedere il permesso a una stazione di terra. Il tutto nel silenzio perfetto dello spazio e con la complicità del vuoto cosmico che si porta via calore e problemi energetici.

Intelligenza Artificiale e Difesa: l’Europa si mette l’elmetto etico

Mentre Stati Uniti, Cina e qualche altro paese da “risk-on geopolitico” giocano a Risiko con l’intelligenza artificiale militare, l’Unione Europea arriva al tavolo con un White Paper dal titolo più sobrio di un manuale del buon senso: Trustworthy AI in Defence. Il che, tradotto per chi mastica più cinismo che regolamenti comunitari, significa: “sì, anche noi vogliamo l’IA in guerra, ma con la cravatta e senza fare troppo casino”.

L’elemento centrale? Fiducia. Ma non la fiducia cieca che si dà a un algoritmo che decide chi bombardare. No, quella fiducia piena di garanzie, processi, accountability e un’abbondante spruzzata di legalese che ti fa venire voglia di tornare alla buona vecchia baionetta.

Trump firma maxi-deal da 200 miliardi con gli Emirati: Boeing, GE, Exxon, Amazon e compagnia cantando

Se pensavi che le visite presidenziali servissero a scattare selfie diplomatici e stringere mani sudate sotto il sole del deserto, beh, ti sbagliavi di grosso. Donald Trump — sempre lui, l’inevitabile imprenditore travestito da presidente — ha appena fatto esplodere una pioggia d’oro tra Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti per un totale di oltre 200 miliardi di dollari, lanciando una chiara provocazione a chi pensava che l’America stesse perdendo terreno nel gioco geopolitico globale. E no, non è solo una “photo op”. Qui ci sono motori, aerei, trivelle, data center e gallio. Tanto gallio.

Il cuore pulsante dell’accordo è un investimento da 14,5 miliardi di dollari tra Boeing, GE Aerospace e Etihad Airways, per la fornitura di 28 aerei tra 787 Dreamliner e il nuovo 777X, con motori rigorosamente made in GE. Non è solo una bella notizia per gli appassionati di aviazione, è un’iniezione diretta nell’economia manifatturiera americana, una sorta di pacemaker industriale travestito da ordine commerciale. Il messaggio è chiaro: il cielo del Golfo è blu, ma i profitti sono a stelle e strisce.

Shenzhen punta sui semiconduttori: 5 miliardi per vincere la guerra tecnologica con gli Stati Uniti

Shenzhen, una delle metropoli tecnologiche più influenti della Cina, ha recentemente lanciato un fondo interamente dedicato al settore dei semiconduttori, con una dotazione iniziale di 5 miliardi di yuan (circa 692,5 milioni di dollari). Questo fondo, chiamato Saimi (pronunciato “semi”, come i semiconduttori stessi), è gestito dalla Shenzhen Capital Group, un’agenzia statale, ed è un chiaro segnale del tentativo della città di rafforzare l’autosufficienza tecnologica del paese, in un contesto geopolitico teso, soprattutto con gli Stati Uniti. Sembra che Shenzhen stia preparando una partita ad alto rischio, ma sicuramente non una battaglia impari.

Europa che figura barbina

Un’altra volta ci siamo trovati nel mezzo dello scontro tra giganti, e no, non come protagonisti. Come comparsa malvestita sul set sbagliato. Mentre Stati Uniti e Cina giocano a Risiko commerciale lanciandosi tariffe come freccette ubriache al bar di fine serata, l’Europa resta ferma sullo sgabello a fissare il bicchiere vuoto, chiedendosi quando è successo che ha smesso di contare qualcosa.

Il punto non è che ci siano stati colloqui tra Washington e Pechino – quelli sono inevitabili, come i cerotti dopo le scazzottate. Il punto è come si sono chiusi. Gli USA, guidati dal solito Trump in modalità “Reality Show Diplomacy”, annunciano trionfi storici, tariffe dimezzate, vittorie strategiche. La Cina, dall’altra parte, non solo esce con un’economia più tutelata, ma soprattutto con un’immagine geopolitica rafforzata. E noi? Abbiamo commentato. Forse.

Alibaba accelera l’adozione globale dei modelli AI Qwen3 attraverso le piattaforme di sviluppo online

Alibaba ha deciso di aprire i suoi modelli AI Qwen3 a una serie di nuove piattaforme di linguaggio, un passo strategico che punta non solo a rafforzare la sua posizione sul mercato, ma a spingere anche l’adozione globale dei suoi modelli open-source. L’iniziativa è tanto interessante quanto provocatoria, poiché non si tratta solo di una semplice mossa commerciale, ma di un vero e proprio tentativo di fare il salto di qualità nella comunità open-source internazionale, dove Alibaba sta velocemente costruendo una leadership che non può essere ignorata.

La rivoluzione silenziosa dei caccia cinesi: deepseek, l’AI che sta progettando la nuova supremazia aerea di Pechino J-35

Nel mondo opaco dell’aviazione militare cinese, dove ogni notizia è calibrata al millimetro e ogni dichiarazione è filtrata da strati di censura e strategia geopolitica, è emersa una rivelazione che merita più di una lettura distratta. Wang Yongqing, una delle menti ingegneristiche più longeve della Shenyang Aircraft Design Institute, ha ammesso pubblicamente tramite una “dichiarazione controllata” su Chinanews.com che il suo team sta già integrando l’intelligenza artificiale DeepSeek nello sviluppo dei nuovi caccia stealth. Tradotto dal linguaggio diplomatico cinese: l’AI non è più un giocattolo futuristico, ma uno strumento operativo nel design bellico.

Palantir e i camion dell’intelligenza artificiale: la guerra si fa mobile, modulare e autonoma

Nel marzo 2025, l’esercito statunitense ha ricevuto i primi sistemi TITAN (Tactical Intelligence Targeting Access Node) da Palantir Technologies, segnando un punto di svolta nella simbiosi tra software e hardware militare. Questa consegna rappresenta la prima volta che una software house guida un progetto hardware di tale portata per il Pentagono.

TITAN è una piattaforma mobile progettata per raccogliere, elaborare e distribuire dati da sensori spaziali, aerei e terrestri, utilizzando l’intelligenza artificiale per fornire informazioni in tempo reale ai comandanti sul campo. Il sistema è disponibile in due varianti: una avanzata, montata su veicoli FMTV, e una base, su veicoli JLTV.

TikTok scommette sulla Finlandia: 1 miliardo per blindare i dati europei e sfidare la paranoia occidentale

ikTok investirà un miliardo di euro per costruire il suo primo data center in Finlandia, a conferma di una strategia che cerca disperatamente di convincere l’Occidente che ByteDance la casa madre con sede in Cina non è un cavallo di Troia al servizio del Partito Comunista. Confermato da un portavoce dell’azienda, ma senza alcun dettaglio aggiuntivo (per non rovinare la suspense?), il progetto si inserisce nel più ampio piano da 12 miliardi di euro noto come Project Clover, una sorta di foglia di fico digitale pensata per coprire le pudenda della privacy europea.

La Finlandia non ha ancora commentato ufficialmente. Ma se guardiamo ai numeri, capiamo che Helsinki non sta aspettando il via libera morale: nel paese sono previsti oltre 20 nuovi data center per un valore totale di circa 13 miliardi di euro e una capacità stimata di 1,3 gigawatt. Non è solo una questione di freddo anche se le basse temperature aiutano a raffreddare i server senza dover costruire centrali nucleari per alimentare l’aria condizionata ma di energia green a basso costo e infrastrutture digitali che fanno gola ai giganti del tech, da Microsoft a Meta. Come ha sottolineato Brad Smith, presidente di Microsoft, “Finlandia significa energia carbon free e ottima connettività: la combo perfetta per servire tutto il continente”.

Cina ai tempi del robot patriota: Xi Jinping tra umorismo calcistico e guerra tecnologica

La scena è quasi surreale: Xi Jinping, leader di un impero tecnologico sotto assedio, osserva un robot a due braccia che raccoglie immondizia da una scrivania, mentre un altro, su due gambe, pedala come un bambino precoce. La cornice è quella di Shanghai, nell’epicentro dell’innovazione cinese in AI e robotica, ma il sottofondo è quello di una guerra fredda digitale che si è appena fatta più rovente con l’ennesima bordata di dazi americani. Il messaggio, nemmeno troppo velato, è: “Ce la faremo da soli”. Tradotto in linguaggio da CEO: decoupling is real, and it’s personal.

Xi, con il solito sorriso da nonno benevolo ma onnipotente, visita lo SMC Shanghai Foundation Model Innovation Centre, il centro nevralgico dove la Cina sta incubando il suo futuro digitale senza l’ausilio occidentale. Qui, la nuova leva di imprenditori tech gli offre uno spettacolo costruito per l’occasione, ma impregnato di strategia geopolitica: robot umanoidi, occhiali intelligenti, modelli multimodali e chip interamente domestici. Tutto è autoctono, ogni bit è patriottico. E mentre Xi osserva e loda, il messaggio filtrato tra le righe è una chiamata alle armi: la tecnologia sarà sovrana, o non sarà.

Effective Accelerationism, e/acc e Stato profondo: come DARPA, NSA e Pentagono usano la Silicon Valley per dominare il futuro

C’era una volta, in quella fiaba aziendalista chiamata Silicon Valley, una generazione di tecnologi illuminati che giuravano fedeltà al “lungotermismo”, quella nobile idea secondo cui l’umanità dovrebbe pensare in grande, guardare ai secoli futuri e proteggersi dai famigerati “rischi esistenziali” dell’intelligenza artificiale.

Sembrava quasi che ogni startupper con un conto miliardario si considerasse un custode della civiltà, intento a garantire che i robot non sterminassero i loro stessi creatori mentre sorseggiavano un matcha latte.

Superintelligenza americana: sogno di potenza o auto sabotaggio tecnologico?

In un’America che si racconta come paladina dell’innovazione, la realtà si sta rapidamente sgretolando sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. La narrazione istituzionale — una spinta muscolare verso l’intelligenza artificiale “American-made“, una serie di Executive Orders che suonano più come comandi militari che direttive democratiche si scontra violentemente con il fatto brutale che i laboratori di ricerca si svuotano, i fondi evaporano, i talenti migliori migrano verso lidi più fertili e meno tossici.

Abbiamo trovati il report “America’s Superintelligence Project” di Gladstone AI, una pietra miliare intrisa di paranoia strategica e inquietudine geopolitica, dipinge un futuro degno di un romanzo distopico di fine anni ’80. Qui, le facilities che si immaginano non sono campus universitari vivaci, né laboratori open-space da Silicon Valley, ma fortezze remote, sorvegliate da apparati militari, dove la creatività dovrebbe prosperare sotto occhi vigili, magari armati.

Pentagono e intelligenza artificiale: quando anche il “Kill Chain” diventa un chatbot

La notizia della scorsa settimana sembrava la classica trovata da film di fantascienza di serie B: due Marines americani, in missione tra Corea del Sud e Filippine, usano un chatbot generativo simile a ChatGPT per analizzare dati di sorveglianza e segnalare minacce. Non si tratta di un esercizio di marketing tecnologico, ma di un vero e proprio test operativo di come il Pentagono stia accelerando la sua corsa nell’integrazione dell’intelligenza artificiale generativa nei processi militari più sensibili. Altro che “assistente virtuale”, qui parliamo di sistemi che leggono informazioni di intelligence e propongono scenari operativi, inserendosi direttamente nel ciclo decisionale di guerra. Se vuoi farti un’idea più precisa di questa follia organizzata puoi dare un’occhiata alla notizia originale.

La polveriera Kash Patel: dall’arresto della giudice di Milwaukee alla guerra contro la “Deep State”

Nei giorni in cui i media sembrano concentrarsi su altri fronti, la notizia dell’arresto della giudice di Milwaukee, accusata di aver aiutato un immigrato irregolare a sfuggire alla giustizia, passa quasi inosservata. Ma a mettere questa vicenda al centro dell’attenzione è stato il direttore dell’FBI, Kash Patel, una figura che non lascia indifferenti, tanto per le sue posizioni politiche quanto per la sua carriera.

Bytedance prova a piantare bandiera in Brasile tra pale eoliche e cavi sottomarini

ByteDance, la famigerata casa madre di TikTok, sembra aver trovato il suo nuovo Eldorado a sud dell’equatore. Secondo quanto rivelato da tre fonti confidenziali a Reuters, il colosso cinese sta seriamente valutando un investimento colossale in un data center da 300 megawatt nel porto di Pecem, nello stato brasiliano del Ceara, sfruttando l’abbondante energia eolica che soffia costante sulla costa nord-orientale del paese. Per intenderci, parliamo di un progetto che potrebbe arrivare a un assorbimento di energia di quasi un gigawatt se il piano dovesse proseguire oltre la prima fase. Per fare un paragone, è come alimentare più o meno 750.000 case contemporaneamente, senza contare la sete insaziabile dei server affamati di dati.

Nel pieno stile “meglio abbondare”, ByteDance non si muove da sola: sarebbe in trattative con Casa dos Ventos, uno dei principali produttori di energia rinnovabile del Brasile, per sviluppare il mega impianto. La scelta di Pecem, va detto, non è casuale. Il porto vanta una posizione strategica con la presenza di stazioni di atterraggio di cavi sottomarini, quelli che trasportano i dati attraverso gli oceani a velocità indecenti. Oltre ai cavi, c’è una concentrazione significativa di impianti di energia pulita. Insomma, tutto perfetto, se non fosse che il gestore nazionale della rete elettrica brasiliana, ONS, ha inizialmente negato la connessione alla rete per il progetto, temendo che simili colossi energivori potessero far saltare il sistema come un vecchio fusibile in una casa anni ‘50.

Come i metalli critici cinesi e non solo minano il 78% dell’arsenale americano

Se ti dicessi che il mastodontico apparato militare americano, quello da trilioni di dollari di budget annuo, dipende dalle miniere cinesi come un tossico dal suo spacciatore di fiducia? No, non è una provocazione da bar sport geopolitico, è il cuore nero di uno studio appena rilasciato da Govini, società specializzata nell’analisi delle catene di approvvigionamento della Difesa. Un’analisi che fotografa senza pietà una verità tanto scomoda quanto letale per la narrativa a stelle e strisce: il 78% dei sistemi d’arma del Pentagono è potenzialmente ostaggio della politica mineraria di Pechino.

La radiografia effettuata da Govini non lascia margine a ottimismo: parliamo di circa 80.000 componenti bellici che incorporano metalli come antimonio, gallio, germanio, tungsteno e tellurio. Cinque piccoli elementi chimici, sconosciuti ai più, che nella mani giuste (o sbagliate) diventano l’ossatura invisibile di radar, missili, droni, blindati, sistemi di difesa nucleare. E guarda caso, la produzione globale di questi metalli è dominata quasi integralmente dalla Cina.

Pechino scatena l’intelligenza artificiale: la nuova corsa all’oro hi-tech tra ambizioni, chip e propaganda

Se qualcuno ancora si illudeva che la Cina avesse intenzione di restare a guardare mentre l’Occidente gioca a fare gli apprendisti stregoni dell’intelligenza artificiale, è ora di svegliarsi dal torpore. Xi Jinping, con la solennità tipica di chi ha in mano non solo il telecomando, ma anche la sceneggiatura dell’intero show, ha dichiarato senza giri di parole: la Cina mobiliterà tutte le sue risorse per dominare l’AI, scardinare ogni colletto tecnologico imposto dagli Stati Uniti, e guidare la prossima rivoluzione industriale mondiale.

Quando gli algoritmi fanno fuoco: l’AI israeliana e il nuovo volto disumanizzato della guerra

Nel tempo in cui il codice vale più del comando, dove la guerra si digitalizza e l’etica vacilla davanti all’efficienza algoritmica, Israele pare aver ufficializzato il passaggio dallo stato di guerra a quello di “debug militare“. La notizia, uscita sul New York Times, racconta di come l’esercito israeliano abbia abbracciato senza troppi giri di parole l’uso dell’intelligenza artificiale per identificare, localizzare e colpire target all’interno della Striscia di Gaza. E non si parla di mere ricognizioni o supporto alla logistica: qui si tratta di vere e proprie esecuzioni gestite da modelli predittivi, droni killer e riconoscimento facciale.

Il caso esemplare, riguarda Ibrahim Biari, figura chiave di Hamas e implicato direttamente negli attacchi del 7 ottobre. L’intelligence israeliana avrebbe monitorato le sue chiamate e, attraverso un tool di AI vocale, triangolato una posizione approssimativa. Quella stima, che avrebbe potuto essere un intero quartiere, è bastata per lanciare un raid aereo il 31 ottobre 2023. Risultato? Biari eliminato. Ma insieme a lui oltre 125 civili, secondo Airwars, organizzazione di monitoraggio dei conflitti con sede a Londra.

Huawei e iFlytek riscrivono l’IA cinese con chip domestici, sfidando OpenAI e aggirando l’embargo Usa

Nel cuore della tempesta geopolitica tra Stati Uniti e Cina, una nuova narrativa tecnologica si sta scrivendo con toni orgogliosi e una spruzzata di vendetta industriale. iFlytek, colosso cinese del riconoscimento vocale, ha annunciato che i suoi modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) ora poggiano interamente su infrastruttura computazionale cinese, grazie alla collaborazione con Huawei. Un’alleanza non solo tecnologica, ma politica, che mira a scrollarsi di dosso la dipendenza da chip americani come quelli della Nvidia, sempre più difficili da importare a causa delle restrizioni di Washington.

Dietro le quinte di questa rivoluzione sovranista dell’intelligenza artificiale c’è Xinghuo X1, un modello di ragionamento definito “autosufficiente e controllabile”. Parole scelte con cura chirurgica per rassicurare Pechino e tutti quei settori industriali strategici che vedono in questa svolta l’unica via per non rimanere ostaggio dell’Occidente tecnologico. La narrazione ufficiale vuole che, dopo un’intensa co-ingegnerizzazione con Huawei, Xinghuo X1 sia ora in grado di competere con giganti come OpenAI o1 e DeepSeek R1, secondo un post trionfalistico pubblicato su WeChat da iFlytek.

Huawei Ascend 920 prepariamoci a un progetto Opphenaimer cinese

uawei si prepara a diventare l’arma strategica di Pechino nella guerra dei semiconduttori contro l’Occidente. A quanto pare, non è solo il creatore di smartphone “proibiti” o l’eterno bersaglio delle black list statunitensi. No, stavolta la compagnia di Shenzhen alza il tiro e si candida a rimpiazzare Nvidia nel suo stesso dominio: l’intelligenza artificiale. Sì, hai capito bene, si parla di GPU AI-ready. E no, non è un’esercitazione.

Secondo Digitimes, Huawei lancerà entro fine anno il chip Ascend 920, costruito su processo a 6 nanometri, pronto per la produzione di massa nella seconda metà del 2025. Questo chip, che promette prestazioni da brividi, punta dritto al cuore delle GPU H20 di Nvidia, le ultime sopravvissute sul mercato cinese dopo l’embargo tecnologico imposto da Washington. Ma ora anche quelle sono finite nel mirino delle restrizioni USA, rendendo il ban totale.

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