CANNES — È bastato un video sgranato di 19 secondi, un elefante, uno zoo e un ragazzo impacciato per iniziare la rivoluzione. Vent’anni dopo “Me at the Zoo”, YouTube non è più solo la piattaforma dove perdi tempo guardando video di gatti o tutorial su come sbucciare un mango con un trapano. È diventato — parola di Neal Mohan — “il centro della cultura con la C maiuscola”. Non una battuta, ma una tesi geopolitica. Mohan, oggi CEO del colosso, l’ha rilanciata sul palco del Festival di Cannes Lions 2025, e lo ha fatto con la sicurezza tipica di chi non solo annusa il futuro, ma lo brevetta.

La keyword è chiara: creatori. Non più youtuber, non più dilettanti allo sbaraglio con webcam da 480p. Oggi sono imprenditori culturali, registi seriali, macchine narrative da milioni di fan e miliardi di visualizzazioni. Alcuni si costruiscono studi cinematografici, altri scalano l’Everest con troupe da blockbuster. Letteralmente: Inoxtag ha documentato la sua scalata, firmato un docu-film e incassato 17 milioni di views in 48 ore. Tarantino, scansati.

E mentre Netflix arranca nel giustificare budget da 150 milioni per drammi pseudo-intellettuali, creator come Stephanie Soo costruiscono imperi editoriali partendo da un podcast criminale e una telecamera fissa. Il suo Rotten Mango non è solo una hit: è il nuovo modo di fare informazione, intrattenimento e business nello stesso flusso, dove la community non guarda ma partecipa. È questa la parola magica: fandom. La nuova valuta dell’attenzione.

Se pensate che sia ancora “televisione”, vi sbagliate. La TV oggi è solo un altro schermo. YouTube lo ha già colonizzato: un miliardo di ore al giorno guardate direttamente sul televisore di casa, ma senza i filtri e le camicie stirate dei palinsesti generalisti. Qui i contenuti non hanno generi, né formati. Puoi passare dalla finale dell’Eurovision a un reaction video sul vestito di Dua Lipa, da un match NBA al breakdown di un ex campione, tutto nello stesso stream, senza chiedere il permesso a nessuno.

C’è una leggerezza brutale nel modo in cui YouTube ridisegna le regole. Chi crea non deve chiedere il permesso, chi guarda non deve giustificarsi. È questa la vera disintermediazione: non quella delle piattaforme streaming che hanno solo sostituito una burocrazia con un’altra, ma quella dove ogni creator è writer’s room, regista e marketing director insieme. E guai a chiamarlo dilettantismo.

Chi comanda oggi è chi ha i dati, la community e la capacità di costruire universi narrativi. E quando si parla di potere narrativo, il fan diventa co-autore. The Amazing Digital Circus ha totalizzato 300 milioni di visualizzazioni per il pilot. Ma sono stati i fan, con meme, canzoni e remix, a generare altri 25 miliardi di visualizzazioni. Più che cultura partecipativa, è industria mimetica. L’originale diventa solo l’innesco.

Nel frattempo, Shorts — la risposta di YouTube a TikTok — viaggia a 200 miliardi di visualizzazioni al giorno. Ripeto: al giorno. È l’equivalente digitale di un’intera civiltà che si parla a colpi di 15 secondi, uno scroll alla volta. Il tempo dell’attenzione breve non è il nemico. È la nuova grammatica.

E poi c’è l’AI. Neal Mohan non ne parla come un futurista entusiasta, ma come un ingegnere operativo. L’AI su YouTube non è una minaccia: è un propulsore. Dai background generativi ai video creati con Dream Screen, dal doppiaggio automatico in 20 lingue alle clip musicali remixate da modelli di apprendimento multimodale. Veo 3, l’ultima creatura di DeepMind, non è ancora mainstream, ma lo sarà. E cambierà radicalmente il concetto stesso di regia e montaggio.

Ma qui si gioca anche un’altra partita: la lingua. Con l’auto-dubbing, Mohan punta a disintegrare le barriere culturali come un Napster dei contenuti globali. In sei mesi, 20 milioni di video doppiati. E siamo solo all’inizio.

Nel frattempo, gli Sidemen, un collettivo di creator nato per scherzo, ha venduto Wembley. E non è una metafora. Come Taylor Swift, come Ed Sheeran, come le boy band coreane. Ma con una fanbase costruita a colpi di video, collaborazioni e fast food brandizzati. Hanno fatto merchandising, store fisici, partite di beneficenza, e tutto senza un solo euro di finanziamento istituzionale.

Qui la provocazione è implicita ma netta: perché abbiamo ancora bisogno dell’industria dell’intrattenimento tradizionale?

La risposta non è più scontata. Il contenuto non è più “prodotto”, ma “interazione”. Il creator è simultaneamente il brand e il medium. L’audience non è pubblico, ma capitale attivo. E YouTube è il sistema operativo di questa rivoluzione. Altro che Hollywood.

Neal Mohan lo dice con la calma glaciale dei CEO di Silicon Valley, ma il sottotesto è incendiario: nei prossimi 20 anni, la creatività sarà un campo di battaglia algoritmico, con creators come generali e AI come esercito. Chi non ha una community, chi non sa parlare il linguaggio del digitale nativo, resterà fuori.

Quello che una volta chiamavamo “user generated content” ora è mainstream, ma non nel senso banale. È il nuovo modo di costruire significato e valore. La cultura non si impone più dall’alto: si scrolla, si remix, si reinterpreta. E si monetizza.

YouTube, insomma, non è più solo una piattaforma. È un ecosistema economico, linguistico, psicologico. Una infrastruttura culturale in grado di produrre icone, movimenti, aziende. Se volete sapere dove andrà l’intrattenimento, la pubblicità, la comunicazione nei prossimi 20 anni, non guardate le serie TV. Guardate quello che i fan fanno dopo.

Oppure ascoltate Mohan. Ma fatelo prima che il video venga doppiato in 30 lingue e il trend sia già vecchio di due giorni.