In un mondo che si preoccupa dell’etica dell’intelligenza artificiale, la Cina si preoccupa del bitrate. Mentre Hollywood affoga nel dibattito su diritti digitali e attori sintetici, Pechino risponde con un roundhouse kick da 14 milioni di dollari: lanciando il Kung Fu Film Heritage Project, un’iniziativa per restaurare digitalmente 100 classici del cinema marziale con la grazia millimetrica dell’AI.
Non è solo un’operazione di restauro: è un affondo strategico nel cuore della soft power globale. Bruce Lee, Jackie Chan, Jet Li – i nomi che hanno portato la Cina nel subconscio collettivo dell’Occidente non torneranno semplicemente più nitidi, torneranno algoritmicamente perfezionati. È un’operazione chirurgica sulla memoria visiva del mondo, eseguita da intelligenze non umane con precisione disumana.
Non parliamo di semplici upscaling: stiamo assistendo a un raffinamento neuronale del passato. L’obiettivo dichiarato è “migliorare qualità visiva, audio e valori produttivi”, ma la vera ambizione è più profonda. Come se Confucio avesse scritto un algoritmo: l’integrità narrativa sarà preservata, giurano, ma sarà un’altra cosa. Sarà migliore. Sarà… performante.
Certo, Hollywood ci riflette, fa simposi, firma petizioni per la protezione della creatività umana. In Cina invece, in una sala ben illuminata del 27esimo Shanghai International Film Festival, hanno premuto “Enter”.
E puff, è nato anche A Better Tomorrow: Cyber Border, primo film animato interamente prodotto dall’AI. Una trentina di tecnici, mesi di lavoro, ed eccolo lì: il remake cibernetico del capolavoro di John Woo del 1986. Un tempo Chow Yun-fat impiegava due settimane per imparare a impugnare una Beretta con stile. Ora basta una GPU.
“L’AI ha abbattuto la barriera tra creatività ed esecuzione”, ha detto il produttore Zhang Qing. Il che, tradotto dal linguaggio diplomatico del Partito, significa che l’uomo è ufficialmente diventato colui che preme ‘play’ sull’arte generata.
L’arte, nel senso tradizionale, trema. L’arte, nella sua forma programmabile, fiorisce.
Il Kung Fu Film Heritage Project non è un banale programma culturale. È un’iniezione endovenosa di intelligenza artificiale dentro l’identità nazionale. È lo strumento con cui Pechino riprende il controllo del proprio storytelling globale, svecchiando ciò che fu, per trasformarlo in ciò che serve oggi: una Cina giovane, ipertecnologica, inarrestabile. Anche quando si guarda all’indietro.
E lo fa con una disciplina da Shaolin. Se in Occidente ci si chiede se ChatGPT debba scrivere copioni o meno, a Pechino è già stato nominato direttore della fotografia, sceneggiatore, montatore e colorist. Nessun sciopero degli sceneggiatori, nessuna protesta degli attori: l’AI è il nuovo action hero. Silenzioso, infaticabile, non chiede royalties.
La logica interna di tutto ciò è brutale nella sua semplicità: il cinema è potere. Il cinema è memoria. E l’AI è lo strumento definitivo per riscrivere entrambi.
Bruce Lee, in Fist of Fury, sfondava una targa con scritto “malato d’Oriente”. Ora sarà l’AI a restaurare quella scena, pixel per pixel, fino a farla brillare in 8K. Un paradosso ipertecnologico: restaurare la ribellione del passato con l’obbedienza matematica del presente.
Certo, c’è qualcosa di disturbante in tutto questo. Una nostalgia pilotata. Un’estetica del ricordo che non è più patina del tempo, ma patina digitale. È il restauro come atto politico. Come ingegneria della memoria. Con un rendering a 60 frame al secondo.
Eppure, è impossibile non restare affascinati.
Perché il colpo è magistrale: la Cina prende i simboli che l’Occidente ha già interiorizzato – Lee, Chan, Li – e li reinventa con le proprie regole. Più nitidi, più moderni, più potenti. È il soft power 3.0: nostalgico quanto basta, ma anche spietatamente contemporaneo.
Nel frattempo, in California, si discute ancora di linee guida etiche per l’utilizzo dell’AI nelle produzioni cinematografiche. Intanto in Cina, Jackie Chan torna a volare tra le lanterne rosse in una versione rimasterizzata che lui stesso non ha mai visto.
E no, non c’è niente di etico in tutto questo. Ma è spettacolare.
Una curiosità per i feticisti del dettaglio: alcune delle pellicole restaurate, come Once Upon a Time in China, verranno distribuite anche nei mercati esteri con doppiaggio AI, perfettamente lab-synced. Vuol dire che Jet Li parlerà inglese, spagnolo e probabilmente anche wolof, con movimenti labiali perfetti. Tradotto: one punch diplomacy.
Nel frattempo, le major americane tremano. Il cinema cinese, che una volta era il “cugino esotico” da festival, ora rientra a gamba tesa nella partita globale con il più potente alleato immaginabile: una macchina che non dorme, non dimentica e non sbaglia un’inquadratura.
Si dice che l’AI non possa sostituire il cuore umano. Ma forse può renderlo più vendibile. Con un color grading migliore.
E mentre Pechino sorride nel suo silenzio operativo, lo spettatore globale si prepara a guardare di nuovo Drunken Master, ma questa volta con pupille dilatate da una perfezione inquietante. Non sarà nostalgia. Sarà iperrealismo. Sarà… un altro livello di propaganda.
La verità? Bruce Lee l’aveva già detto: “Be water, my friend.” E l’AI lo è. Fluida, inarrestabile, adattiva.
Solo che ora quella “water” ha anche un server centrale e una pipeline di rendering.