Nel cortile sempre più ristretto del tech globale, Huawei non solo sopravvive, ma orchestra una sinfonia propria. HarmonyOS 6 non è solo un aggiornamento di sistema operativo. È una dichiarazione di guerra, gentile quanto spietata, al duopolio Apple-Google. Ma, come in ogni opera orientale, l’apparente lentezza del gesto nasconde una potenza zen.
All’annuale Developer Conference, Richard Yu – lo Steve Jobs del delta del fiume delle Perle – ha messo sul tavolo la beta di HarmonyOS 6, insieme a una nuova generazione di agenti AI, i modelli Pangu 5.5 e l’architettura CloudMatrix 384. È il tentativo più ambizioso della compagnia per costruire un ecosistema software cinese a prova di sanzioni statunitensi.
Quello che sembra un sistema operativo, in realtà è un sistema immunitario.
Yu l’ha detto senza giri di parole: HarmonyOS non ha la capillarità di iOS o Android, ma ha ciò che conta. Perché “il 99.9% del tempo degli utenti è passato sulle 5000 app principali”. Il che è un modo elegante per dire: il resto del mondo può aspettare, noi abbiamo già tutto ciò che serve qui. Il valore non è nella quantità delle app, ma nella loro intensità d’uso.
L’elemento più sovversivo, tuttavia, non è tecnico ma politico. HarmonyOS non si limita più a smartphone e tablet: ora gira su laptop pieghevoli e si estende come linfa vitale in tutti i dispositivi digitali marchiati Huawei. È l’inizio della platform nation, dove il sistema operativo è la Costituzione digitale.
Sotto il cofano di HarmonyOS 6 c’è l’HarmonyOS Agent Framework: un toolkit che permette agli sviluppatori di creare agenti AI senza partire da modelli fondamentali. Tradotto: democratizzazione dell’AI, sì, ma anche una forma di controllo localizzato. Niente fondation models open-source importati, ma agenti “domestici”, a misura di Weibo, Ximalaya e, scommettiamo, anche qualche piattaforma governativa non detta. Non serve essere paranoici per vedere il disegno: un AI che risponde ai bisogni nazionali, e solo a quelli.
A impreziosire il quadro ci pensa la nuova iterazione dei modelli Pangu, la serie 5.5. Il modello NLP sfoggia 718 miliardi di parametri – una dichiarazione muscolare che sposta l’asse dalla Silicon Valley alla Shenzhen Valley. Un altro modello visivo arriva a 15 miliardi di parametri. Ma ciò che conta non è il numero. È dove vanno a finire: medicina, finanza, governance, manifattura e automotive. I punti vitali del corpo industriale. La Cina non vuole creare un nuovo ChatGPT, vuole sostituire SAP.
In un contesto dove l’AI è diventata la nuova energia strategica, Huawei ha acceso la sua centrale nucleare: CloudMatrix 384. Con i suoi 384 Ascend NPU e 192 CPU Kunpeng, l’infrastruttura promette non solo concorrenza, ma superamento delle prestazioni dei chip Nvidia H800. Il colpo più duro? Il benchmark con DeepSeek R1 – un modello di ragionamento – dove i chip cinesi battono i campioni americani.
A questo punto, il confronto con Nvidia non è più teorico, ma industriale. Il CloudMatrix 384 Supernode mira dritto al GB200 NVL72. È la versione digitale del “sorpasso” che Deng Xiaoping sognava: silenzioso, metodico, implacabile.
Curiosamente, tutto questo avviene mentre in Occidente si celebra l’hype del momento: le AI personalizzate, gli agenti vocali, gli smartphone intelligenti che però, alla fine, dipendono ancora dalla filiera del chip di Taiwan o dalle API di OpenAI. Huawei invece sembra disinteressata all’effimero. Non crea solo prodotti, crea infrastrutture.
In questo senso, Huawei è più simile a IBM che a Apple. Costruisce stack verticali, non design da vetrina. Pianta radici nel tessuto produttivo, non solo nell’immaginario del consumatore. Lo fa in un linguaggio tecnico, con lessico da ingegnere, ma ambizioni da imperatore.
E se vi sembra un’esagerazione, basti considerare che nel 2024, Huawei ha già consegnato metà dei suoi 103 milioni di smartphone totali con HarmonyOS. Non è più una transizione, è un’accelerazione gravitazionale. E come ogni buco nero, attira tutto ciò che gli orbita vicino.
C’è qualcosa di ironico nel vedere gli USA tentare di isolare Huawei, mentre questa costruisce un sistema operativo che connette tutto – smartphone, laptop, data center, persino agenti AI. È l’isolamento al contrario: gli altri restano fuori, Huawei crea il proprio dentro.
“Quando ti chiudono fuori, costruisci la tua casa”, sembrano dire dalla Cina.
Solo che questa casa ha le fondamenta in AI, le pareti in siliconi avanzati, e un tetto di cloud ibrido.
La differenza non è solo geografica. È filosofica. Mentre il mondo occidentale dibatte se l’AI sarà troppo potente, la Cina la costruisce per farla funzionare su scala industriale.
HarmonyOS 6, con i suoi AI agent, non è qui per imitare Siri o Copilot. È qui per sostituirli. Magari non oggi. Ma con i suoi 8 milioni di sviluppatori, 30.000 app e un’architettura proprietaria che bypassa le restrizioni di Washington, Huawei si sta garantendo ciò che le sanzioni volevano impedirle: la sovranità digitale.
E nel mondo di oggi, è l’unica che conta davvero.

Huawei AI chip: come l’embargo americano ha forgiato un colosso parallelo all’ombra di Nvidia
Nel 2019, gli Stati Uniti hanno piazzato Huawei sulla loro blacklist tecnologica come un giocatore di poker che mostra i muscoli al tavolo. Solo tre mesi dopo, la risposta della multinazionale cinese è stata spiazzante: “il processore AI più potente del mondo”, lanciato con orgoglio dall’allora presidente a rotazione Eric Xu. Il nome: Ascend 910. Sì, il chip che avrebbe dovuto alimentare la futura supremazia dell’intelligenza artificiale made in China.
Poi, il colpo di grazia: nell’agosto 2020, Washington ha ampliato i controlli, bloccando qualsiasi fornitura mondiale a Huawei che contenesse tecnologia americana. Tradotto: niente più chip da Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. Una mossa chirurgica, pensata per disinnescare la filiera globale.
Gli analisti all’epoca parlavano di sopravvivenza a rischio. Paul Trolio della Eurasia Group dichiarava che, con una compliance globale, Huawei avrebbe potuto “cessare di esistere come entità commerciale”. Ma il cadavere, evidentemente, camminava ancora.
Oggi, nel 2025, Huawei non solo è viva, ma inizia a fare ombra ai giganti. Jensen Huang, il guru carismatico di Nvidia, ha candidamente ammesso che “le restrizioni all’export sono fallite”. In piena Computex, a Taipei, ha suggerito che ostacolare la Cina potrebbe costare caro proprio alle aziende americane. Traduzione: Huawei sta prendendo lo spazio che Nvidia ha lasciato.
I numeri? La GPU H20 di Nvidia – pensata per aggirare le restrizioni USA – è diventata un boomerang: 4,5 miliardi di dollari in perdite per eccesso di scorte. E per il trimestre successivo, l’azienda prevede un buco di 8 miliardi.
In questa crisi, Huawei ha tirato fuori l’artiglieria pesante: CloudMatrix 384, un’architettura da centro dati progettata con 384 unità Ascend 910C e 192 CPU Kunpeng, il tutto orchestrato da una sinfonia a banda ultra-larga. Il sistema ha surclassato Nvidia nel test su DeepSeek R1, un LLM di nuova generazione, soprattutto nelle fasi di inferenza e decoding, dove Huawei ha mostrato tempi inferiori ai 50 millisecondi a token.
Un documento tecnico Huawei-SiliconFlow lo ha descritto senza mezzi termini come “una piattaforma scalabile, ad alta produttività e pronta per il deployment su larga scala”.
Ma se i chip americani sono ancora una generazione avanti, Huawei ha aggirato l’ostacolo con l’intelligenza di un generale accerchiato: impilamento verticale, architettura dual-die e una strategia di clustering massivo. Il concetto non è più avere il chip più potente, ma la rete di chip più efficiente. Parola del fondatore Ren Zhengfei: “La performance combinata è più importante di quella del singolo chip”.
Un’eresia in Occidente, ma una realtà in Cina.
Nel frattempo, Nvidia ha perso anche la sua aura di fornitore affidabile per il mercato cinese. Persino le Big Tech locali – Alibaba e Tencent in testa – stanno virando verso chip domestici, preparandosi al momento in cui gli stock Nvidia accumulati finiranno.
Secondo JPMorgan, l’urgenza è stata congelata per sei-dodici mesi, ma poi arriverà il nodo. E quando accadrà, Huawei potrebbe essere l’unico nome disponibile.
Le cifre variano: da 200.000 chip Ascend previsti dal Dipartimento del Commercio USA a una stima da 700.000 unità per il 2025 secondo Mizuho. Tutto questo nonostante le difficoltà produttive di SMIC, il più grande chipmaker cinese, fermo ai 7nm.
Come ha fatto Huawei? La risposta potrebbe risiedere in SiCarrier, un produttore cinese di macchinari per semiconduttori, che ha mostrato muscoli a Semicon China esibendo una gamma completa di strumenti per il chip design e test. Una parata da Guerra Fredda in salsa siliconica.
Il vero scossone però arriva dal software. Mentre Washington blocca l’export di EDA tools – software essenziali per progettare chip – emergono nomi come Empyrean, Primarius e Semitronix. Il messaggio implicito: se ci chiudete la porta, passeremo dalla finestra. O la costruiremo noi.
Empyrean ora fornisce l’80% dei 58 strumenti EDA necessari all’intero ciclo produttivo di un chip. Obiettivo dichiarato: arrivare al 100% e diventare un top player globale. Con un piccolo dettaglio mancante: un ecosistema maturo. Ma i cinesi sono noti per le maratone, non per gli sprint.
Firme come SenseTime e iFlytek stanno già utilizzando Ascend nei loro centri dati. SenseTime ha dichiarato che la quota di chip domestici “cresce ogni anno”. iFlytek, anche se con un ritardo di tre mesi nello sviluppo, si è ormai allontanata dai chip americani.
Il punto è chiaro: il blocco ha accelerato l’autonomia. Una frase che sa di contrappasso geopolitico.
David Sacks, ex consigliere AI sotto Trump, ha ammesso che Pechino è ormai solo due anni indietro nella progettazione dei semiconduttori. E se gli Stati Uniti continueranno a tagliare fuori i propri alleati, Huawei – che “ha la Cina coperta” secondo Jensen Huang – si prenderà anche il resto del mondo.
Eppure, nel cortocircuito ideologico dell’export control, c’è un’ironia tragica. Più si cerca di bloccare l’accesso alla tecnologia, più si fertilizza il terreno per la creazione di un sistema parallelo, chiuso, indipendente, e forse, in prospettiva, imbattibile.
Ren Zhengfei, intervistato dal People’s Daily, ha liquidato le sanzioni con distacco taoista: “Non penso alle difficoltà. Avanzo un passo alla volta”. Una frase che, letta tra le righe, suona come un monito. O peggio, una promessa.