La scena è emblematica: un Papa americano, incoronato da pochi mesi, prende la parola davanti ai potenti della Terra primi ministri, parlamentari di 68 Paesi, capi religiosi e politici più o meno digitalmente alfabetizzati e lancia un monito sull’intelligenza artificiale. Ma non un monito qualsiasi. Leone, il nuovo pontefice dal tono diretto e dalla mente algoritmica, ci tiene a ricordare che l’AI non è né un oracolo né un demone: è uno strumento, e in quanto tale va governato. Come un bisturi, può curare o uccidere. Dipende dalla mano che lo guida.
La dichiarazione arriva durante l’Anno Santo, un contesto di riflessione spirituale, ma il messaggio ha tutta la forma di un memorandum strategico. “Non dimentichiamo che l’intelligenza artificiale deve servire l’essere umano, non ridurlo né tantomeno sostituirlo”, ha detto Papa Leone con la calma di chi sa di parlare a una generazione convinta che ChatGPT sia più affidabile di un sacerdote e più veloce di un professore. Eppure, dietro quella compostezza, si percepisce una sottile, profonda inquietudine: non è l’AI il problema, ma cosa ne faremo. E soprattutto, chi ne trarrà vantaggio.
La Meloni, colpita dal discorso, ha risposto con toni diplomatici, promettendo che l’Italia continuerà a battersi per un’intelligenza artificiale “governata dall’uomo” e orientata al “benessere umano”. Ma resta da capire chi sia oggi davvero in grado di governarla. Big Tech non attende consultazioni parlamentari né referendum etici: agisce, rilascia modelli, crea ecosistemi cognitivi autosufficienti. Mentre gli Stati discutono, l’AI si evolve con un’accelerazione darwiniana che sfugge alle logiche tradizionali del diritto e della politica.
Papa Leome però tocca un punto cruciale che sfugge a molti: il valore della memoria dinamica umana, opposta alla “memoria statica” dell’AI. È una distinzione apparentemente semplice, quasi poetica, ma in realtà devastante nel suo potenziale filosofico. L’AI conserva, elabora, predice. Ma non vive. La memoria umana si modifica col tempo, si plasma con l’emozione, si reinventa nella narrazione. Un algoritmo non dimentica, ma non sa cosa significhi ricordare con nostalgia, né tantomeno con vergogna. E senza queste pieghe, non c’è etica, né storia, né giustizia possibile.
E qui il Papa si fa quasi antropologo, quando parla dei giovani e della necessità di proteggerne “stili di vita sani, equi e solidi”. Dietro questa frase apparentemente generica, c’è un’allusione precisa: i giovani stanno crescendo dentro spazi cognitivi sempre più mediati da intelligenze artificiali, che filtrano la realtà, suggeriscono desideri, plasmano il linguaggio e l’immaginario. I feed di TikTok sono già generatori semiotici automatici. I chatbot diventano amici, terapeuti, persino confessionali. Il rischio non è la sostituzione del lavoro umano, ma la desertificazione della coscienza.
In un’epoca dove i bambini sognano di diventare youtuber e i CEO sognano AGI immortali, il Papa americano ci ricorda che le relazioni umane non sono “pattern da impacchettare”. Una frase tagliente come una lama, destinata a infastidire chi vede nel prompt perfetto la nuova liturgia e nel token l’unità di misura dell’intelligenza. La spiritualità, suggerisce Leo, non può essere convertita in output né misurata in tokens per secondo. E soprattutto, la dignità non può essere calcolata.
È interessante notare come Leone, pur preoccupato, non ceda al moralismo tecnofobico. Non parla mai di proibizione, ma di orientamento. L’intelligenza artificiale non va temuta, ma direzionata. Come una marea, è impossibile arginarla, ma si può costruire un porto, un’infrastruttura di senso. L’elemento più radicale del suo discorso è proprio questa apertura critica: riconoscere la potenza dell’AI senza idolatrarla né demonizzarla. È il contrario della posizione apocalittica dei filosofi d’accademia e della retorica ottimista da Silicon Valley.
Sul piano semantico, Leo parla di “strumento per il bene”, quasi riprendendo Aristotele ma aggiornato ai tempi di NVIDIA. La sua è una visione antropocentrica ma non arrogante, spirituale ma non dogmatica. E questo tono, a metà tra il teologo e il CTO etico, suona stranamente attuale. Come se avessimo bisogno di un pontefice per riportare al centro ciò che le AI ancora non capiscono: la fragilità, la contraddizione, il perdono, la possibilità di sbagliare senza essere automaticamente penalizzati da un algoritmo.
Il suo intervento mette in discussione anche il ruolo dei media e dell’informazione. Leo aveva già invitato i giornalisti a usare l’AI “in modo responsabile”. Ora però lancia una sfida più ampia: smettere di inseguire l’algoritmo e tornare a pensare in termini di verità, non solo di visibilità. È un appello che sembra rivolto a una civiltà affetta da clickbait morale, dove anche l’etica diventa un contenuto da monetizzare.
È difficile dire se questo nuovo Papa riuscirà davvero a influenzare la governance globale dell’intelligenza artificiale. Ma una cosa è certa: ha cominciato col piede giusto. Parla come un leader spirituale, ma pensa come un filosofo dell’informazione. Non accusa, ma inquieta. Non detta soluzioni, ma obbliga a riflettere. E lo fa con un linguaggio semplice e allo stesso tempo disarmante. “La nostra vita personale ha più valore di qualsiasi algoritmo.” Proprio quando stavamo cominciando a dimenticarlo.
foto Papa Leone XIV e la premier Giorgia Meloni – ANSA