Quando l’intelligenza artificiale entra in azienda senza bussare
Antonio Neri non è solo il CEO di HPE. È, almeno in questo momento, il predicatore ufficiale del nuovo vangelo AI-driven, e la sua predica – in diretta dalla surreale cattedrale ipertecnologica della Sphere di Las Vegas – non ammette eresie: l’intelligenza artificiale non è più un’opzione, è la nuova infrastruttura critica. E non importa se gestisci un data center o una PMI in provincia di Mantova: l’AI ti riguarda. Anzi, ti riguarda proprio perché sei ancora convinto che non ti riguardi.
Il palco del The Sphere., progettato per creare esperienze immersive, non è solo una scelta estetica. È un messaggio. L’AI di cui parla HPE non è una scatola nera da tenere nel caveau aziendale, ma un ecosistema visivo, dinamico e invadente. Neri non annuncia una “soluzione” – parola ormai priva di significato – ma una discontinuità strutturale. Un nuovo livello di astrazione in cui il confine tra dati, cloud, networking e capacità computazionale si dissolve, e il tutto viene orchestrato da agenti autonomi, modelli generativi, flussi neurali che imparano, predicono e agiscono.
Dietro il marketing ipnotico della keynote si nasconde però una questione più sostanziale: l’AI, per essere utile alle imprese, ha bisogno di un habitat. Non può vivere in isolamento, come una demo spettacolare da fiera. Ha bisogno di un’infrastruttura che non solo la ospiti, ma la nutra. E su questo HPE gioca in casa. La nuova narrativa, infatti, è tutta centrata sulla integrazione fluida tra AI e cloud ibrido, tra data lake aziendali e algoritmi evolutivi, tra GPU farm e governance decentralizzata.
Nel 2025, costruire AI non significa più addestrare un modello. Significa disegnare un’architettura. Significa orchestrare reti neurali, container e API su scala planetaria, ma con il controllo locale e la compliance del quartiere. Non è un caso che HPE spinga su soluzioni turnkey per private cloud AI, dove i modelli generativi possono girare in-house, al riparo da fughe di dati e audit europei. È il ritorno del data center travestito da cloud: un ibrido per aziende paranoiche e consapevoli.
Ma c’è di più. La vera provocazione di Neri è nel concetto di “AI fisica”. Un termine volutamente ambiguo, che mescola robotics, edge computing e agenti autonomi in ambienti industriali. Un domani non troppo lontano in cui l’intelligenza artificiale non si limita a suggerire campagne marketing, ma muove bracci robotici, ottimizza magazzini, controlla flussi logistici e magari regola la temperatura nei server mentre sorseggia un caffè sintetico. L’AI non come software, ma come forza ambientale. Una nuova elettricità.
Tuttavia, per far funzionare questa distopia performante serve un nuovo tipo di networking. HPE lo sa e rilancia il tema: l’AI non è utile se non è connessa, e le connessioni devono essere intelligenti quanto gli algoritmi. Parliamo di rete predittiva, di segmentazione automatica, di load balancing dinamico. La rete, un tempo silenziosa, oggi diventa parte attiva del processo decisionale. Non trasporta solo pacchetti, interpreta il traffico. Non subisce l’intelligenza artificiale: la incorpora.
In questo scenario, l’ossessione per il dato diventa centrale. Non esiste AI senza dati unificati. Ma nemmeno senza un’ingegneria della complessità che permetta di orchestrare milioni di segnali disomogenei, in tempo reale. Ed è qui che il keynote entra nel territorio difficile, quello dove l’AI smette di essere “smart” e torna ad essere “hard”: architetture distribuite, layer di orchestrazione, modellazione federata, edge AI con provisioning automatico. Roba da CTO, non da PR.
Il punto cruciale, però, è che tutta questa infrastruttura, per quanto elegante, non serve a nulla se non porta vantaggio competitivo. Ed è qui che Neri – CEO pragmatico – affonda la lama. La nuova era dell’AI enterprise non è fatta di sperimentazioni da laboratorio, ma di automazione su larga scala. È qui che l’azienda vince o perde. L’AI non è più “cool”, è necessaria. Automazione dei flussi decisionali, predizione della domanda, manutenzione predittiva, risparmio energetico, ottimizzazione logistica: sono queste le metriche che contano. Tutto il resto è retorica da TEDx.
Interessante anche il passaggio dedicato alla sostenibilità dell’AI. In un contesto in cui ogni modello da 70 miliardi di parametri consuma come una piccola nazione africana, HPE gioca la carta dell’efficienza: architetture a basso impatto, modelli più snelli, riuso dell’hardware, green data center. Non è (solo) etica. È calcolo dei costi operativi. L’AI deve scalare, ma non bruciare i bilanci. Il green non è una missione, è un business model. E qui il messaggio si fa pericolosamente credibile.
L’intero programma di Discover 2025 si articola lungo tre direttrici – AI, networking e cloud ibrido – che non sono silos ma vasi comunicanti. L’AI non vive senza networking evoluto. Il networking non ha senso senza workload distribuiti nel cloud. E il cloud, se non è ibrido e AI-ready, è un costoso archivio Dropbox. La vera innovazione, come sempre, sta nell’intersezione. E HPE – a differenza di altri colossi più goffi – sembra aver capito come si disegna una piattaforma unificata. O almeno, lo racconta bene.
Ma ciò che colpisce davvero nel tono del keynote non è tanto il contenuto tecnico, quanto l’urgenza. Non c’è tempo da perdere. Le aziende che non automatizzano ora saranno clienti dei competitor che lo hanno fatto. Gli executive che non capiscono cosa sia un agente autonomo verranno superati da quelli che lo sanno addestrare. Siamo entrati in una nuova fase darwiniana, in cui la sopravvivenza non è del più forte, ma del più connesso, del più efficiente, del più predittivo.
A ben vedere, la vera trasformazione di HPE non è tecnologica, ma semiotica. Non vende più hardware, vende un destino. E il destino, come tutti i buoni pitch, ha tre elementi: promessa, minaccia, urgenza. La promessa è l’AI che lavora per te. La minaccia è che la AI lavori per qualcun altro. L’urgenza è che la AI non aspetta. Sta già imparando.
Martedì 24 giugno, alle ore 9.00 Pacific Time, chi guarderà il keynote in streaming si troverà di fronte a una performance, non a una presentazione. Ma sotto gli effetti speciali c’è un messaggio chiaro: il tempo della sperimentazione è finito. Inizia il tempo della trasformazione operativa. L’AI non è un prodotto da lanciare. È un’infrastruttura da assumere. E chi non lo farà, verrà superato da chi l’ha già fatto.
La rivoluzione non sarà televisiva. Sarà orchestrata da un agente multi-modale nel tuo datacenter. E avrà la voce suadente di Antonio Neri.