Il paradosso delle macchine intelligenti e degli esseri umani disillusi

L’Intelligenza Artificiale avanza. L’umanità, un po’ meno. Questa, in sintesi brutale, è la conclusione del nuovo Human Development Report delle Nazioni Unite. Un pugno nello stomaco ben assestato nel momento in cui l’Occidente si accalca nei corridoi lucenti dei laboratori di frontiera, intenti a misurare lo spessore semantico di GPT-5 mentre il mondo reale implode per cause meno glamour: disuguaglianze crescenti, fiducia erosa, stagnazione post-pandemica e una generazione che ha smesso di credere nel futuro. La sorpresa? Proprio nel mezzo di questa stagnazione arriva lei: l’AI.

Ma non quella mitologica, con coscienza autonoma e occhi rossi da Skynet. No, quella vera: l’AI “così così”, mediocre, pervasiva, incompresa, già nei nostri smartphone, nei software aziendali, nelle call center di Nairobi e nei moduli di assunzione automatica in Texas. Il problema non è la superintelligenza. È l’intelligenza di medio livello, priva di etica, visione e contesto, che silenziosamente distrugge lavoro senza aumentare produttività. Il capitalismo ama gli automatismi, ma non sempre i risultati.

Il rapporto dell’ONU va dritto al punto: non stiamo vivendo un’epoca di progresso umano. Lo Human Development Index (HDI) è piatto come un ECG terminale, specialmente nel Sud Globale. Nessun vero rimbalzo post-Covid, solo stagnazione mascherata da ripresa tecnica. E nel frattempo, i sistemi di AI vengono costruiti da e per contesti culturali che rappresentano meno del 10% dell’umanità. Se chiedi a ChatGPT “che cos’è il successo”, la risposta è filtrata dall’ideologia di Palo Alto. Non da quella di Lagos, Lima o Lahore.

Il paradosso è clamoroso: abbiamo creato sistemi computazionali che possono scrivere poesie, ma viviamo in un’epoca dove la fiducia collettiva si sgretola. L’intelligenza si moltiplica nei server, ma evapora nei sistemi educativi. Le macchine imparano, gli esseri umani disimparano a vivere insieme. E la retorica dell’hype, quell’ideologia promozionale che ci racconta ogni giorno quanto “AI salverà il mondo”, ci paralizza. Più crediamo che risolverà tutto, meno agiamo. È l’infatuazione per l’oracolo, la rinuncia dell’azione.

C’è però un’alternativa — meno seducente, più concreta: l’AI come tecnologia di affiancamento, non di sostituzione. Il 61% delle persone intervistate crede che l’AI migliorerà il proprio lavoro. Ma attenzione: solo se le politiche pubbliche e gli incentivi aziendali andranno nella stessa direzione. Perché sì, l’epoca dell’automazione ha saltato il Sud del mondo. Ma se anche l’epoca dell’“augmentazione” farà lo stesso, non avremo più un divario digitale. Avremo una voragine geopolitica incolmabile.

Curiosamente, sono proprio i lavoratori meno esperti — i più vulnerabili — a trarre i primi benefici dall’AI. L’apprendista consulente, l’operatore del customer care, l’assistente amministrativo: aumentano efficienza, velocità, accuratezza. Ma il sistema ignora questo potenziale. Perché? Perché è pensato per scalare, non per umanizzare. Per estrarre valore, non per redistribuirlo. Se il benchmark di successo dell’AI resta la competenza tecnica, e non il suo impatto sullo sviluppo umano, stiamo misurando il nulla.

E non è un dettaglio da nerd etici. È la posta in gioco geopolitica. Perché il vero nuovo divide non è sull’accesso all’AI, ma sull’uso che se ne fa. Complementare vs sostituire. Empowerment vs automazione. Un’Italia che usa AI per supportare i suoi docenti è un Paese diverso da una Germania che la usa per rimpiazzarli. Il Brasile che adatta AI alla lingua dei segni non è lo stesso Brasile che importa modelli linguistici allenati su testi legali in inglese.

Lo sanno bene i giovani, che nel frattempo collassano. Il benessere psicosociale delle nuove generazioni è in caduta libera. Anche (soprattutto) nei Paesi ad alto HDI. L’AI, insieme a tutto l’ecosistema digitale, non è neutrale. Genera pressione sociale, aumenta la sorveglianza algoritmica, impone standard irrealistici di performance. Ci stiamo abituando a simulazioni perfette di empatia, mentre dimentichiamo come riconoscerla nel mondo reale. Più le macchine fingono di capirci, meno sappiamo capire davvero gli altri.

Eppure c’è speranza. Nascosta nei margini. L’AI assistiva sta rivoluzionando l’inclusione: sottotitoli in tempo reale, traduzioni gestuali, supporto cognitivo personalizzato. Ma anche qui, serve una scelta politica: queste tecnologie saranno accessibili solo per chi può permettersele? O saranno diritti digitali universali?

La verità è che l’intelligenza artificiale non è una bacchetta magica. È uno specchio. Riflette ciò che siamo disposti a fare — o a ignorare. Come dice il rapporto ONU, la domanda vera non è più “cosa può fare l’AI?”. È “cosa scegliamo di fare noi con l’AI?”.

La prossima rivoluzione non sarà quella degli LLM multimodali. Sarà quella di Paesi, imprese e comunità che capiranno che la vera innovazione non è battere il benchmark di Stanford, ma riscrivere quello dell’umanità.