Non è un colpo di stato, ma somiglia maledettamente a una compravendita di sovranità: 25 milioni di dollari per l’“AI infrastructure” in cambio di un decennio di silenzio normativo da parte degli stati americani. L’ultima versione della bozza di bilancio del Senato USA – quella “big beautiful” come la definiscono con sarcasmo nei corridoi – include una clausola che suona come una battuta uscita male da una sitcom distopica: se vuoi accedere ai fondi federali per la banda larga, ti siedi, stai zitto e non osi approvare leggi statali sull’intelligenza artificiale. Per dieci anni. Giusto il tempo di far maturare una bella oligarchia.
Sul piatto, la cifra simbolica di 25 milioni di dollari destinati al Dipartimento del Commercio, formalmente per “negoziare sconti per l’infrastruttura AI”, ovvero data center e risorse computazionali – quel genere di cose che oggi si vendono al chilo come i pomodori, ma che domani decideranno chi vince le elezioni, chi ottiene un mutuo e chi finisce in una lista di sorveglianza. Un’elemosina, considerando che Nvidia da sola ha superato i 3.000 miliardi di dollari di capitalizzazione. Non c’è cifra che metta a disagio più del contrasto tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente cruciale.
La parte più interessante – o più torbida, a seconda del livello di cinismo del lettore – è che il divieto per gli stati di legiferare sull’intelligenza artificiale era inizialmente considerato fuori tema, “non attinente alla spesa pubblica”. Ma la soluzione escogitata è stata una geniale alchimia procedurale: si è legato il divieto al pacchetto da 42,5 miliardi di dollari per la banda larga, approvato nel 2021 con l’Infrastructure Investment and Jobs Act. Tradotto: se vuoi i soldi per la connessione nelle zone rurali o le scuole pubbliche, chiudi un occhio sull’AI. O entrambi.
Siamo di fronte a un patto faustiano, uno scambio tra progresso tecnologico e rinuncia al pluralismo normativo. Le grandi aziende del settore – dai soliti noti come OpenAI, Microsoft, Google, fino agli emergenti campioni dell’hardware e del cloud – spingono da tempo per evitare un mosaico regolatorio sul modello europeo, dove ogni paese ha la tentazione di “fare il proprio GDPR”. Per loro, la standardizzazione equivale a efficienza, e l’efficienza a margini. Ma per gli stati – e per i cittadini – l’uniformità calata dall’alto può essere una trappola, un modo per congelare ogni tentativo di risposta locale a un fenomeno che evolve più rapidamente della macchina legislativa federale.
A sentire i senatori più zelanti, la mossa servirebbe a guadagnare tempo, a evitare una giungla di norme contraddittorie in attesa che il Congresso partorisca una legge federale sull’AI. Ma la verità è che il Congresso non è nemmeno vicino all’ovulazione, figuriamoci al parto. Le bozze di legge federali sono poche, confuse e già oggetto di un fuoco incrociato di lobbying. Il che rende questa moratoria decennale una prigione a tempo indefinito, nascosta dietro un paravento di infrastrutture digitali.
Il contrasto con l’approccio europeo è quasi comico: da una parte, Bruxelles discute e approva l’AI Act, con tutte le sue contraddizioni ma anche con un tentativo serio di categorizzare rischi e definire obblighi. Dall’altra, Washington affida la governance dell’intelligenza artificiale a un codice promozionale da spendere per l’acquisto all’ingrosso di chip. Più che un piano strategico, sembra una televendita alle due di notte: “Chiama ora e riceverai, senza costi aggiuntivi, una decade di deregulation!”.
Intendiamoci: l’idea di centralizzare alcune scelte in ambito AI può avere un senso, se accompagnata da visione, leadership e accountability. Ma non è questo il caso. Qui si impone il silenzio normativo agli stati non per proteggere l’innovazione, ma per evitare di disturbare chi oggi sta consolidando rendite di posizione in un mercato dove il primo che scala, detta le regole. “Tanto vale dichiarare l’AI patrimonio privato nazionale”, ha ironizzato un deputato della California. Ma il sarcasmo è sempre più difficile da distinguere dalla realtà.
Nel frattempo, procuratori generali e legislatori locali denunciano il rischio concreto di essere resi impotenti proprio quando servirebbe più vigilanza. I sistemi di AI stanno entrando nel welfare, nella sanità, nella giustizia penale. Ogni stato ha casi d’uso, problemi e sensibilità diversi. Blindare la possibilità di risposta per un decennio è una forma sofisticata di centralismo tecnologico, il federalismo al contrario.
C’è qualcosa di inquietante nell’idea che l’infrastruttura AI americana, quella che dovrebbe sostenere la prossima rivoluzione industriale, venga avviata con uno sconto comitiva e un patto di non interferenza. È come costruire un acceleratore di particelle nel retro di un centro commerciale e chiedere a tutti di non guardare troppo da vicino. Forse serve più trasparenza. O forse – come sempre – servirebbe solo più coraggio politico e meno offerte speciali.
Nel frattempo, l’AI va avanti. Non aspetta i bilanci del Senato. Non legge le clausole nei pieghevoli PDF delle leggi omnibus. E di certo, non si fa limitare da moratorie redatte a misura di lobbista.