Sam Altman parla di “100 milioni di dollari” come se stesse ordinando un caffè lungo. Poi dice che Meta li sta offrendo come bonus di assunzione per rubargli i talenti, e il CTO di Meta, Andrew Bosworth, risponde con un sorriso da pokerista che ha appena visto l’avversario bluffare male. “Sam esagera, e lo sa”, dice. Ma non nega che OpenAI stia perdendo pezzi grossi a favore della squadra superintelligence di Menlo Park. Benvenuti nell’era del capitalismo neuronale, dove il valore di un cervello si misura in stock option, NDA e un certo grado di paranoia.
Chiariamo subito una cosa: nessuno sta realmente staccando assegni da 100 milioni in contanti per attrarre sviluppatori AI. Quel numero, come precisa Bosworth, è la somma teorica tra RSU, stock future, performance bonus e un mucchio di incentivi legati a scenari che si realizzano solo se vinci la corsa alla superintelligenza. Il problema non è tanto che Altman abbia detto una cosa non vera, quanto che abbia detto qualcosa che funziona mediaticamente. E nel 2025, l’economia della percezione vale più dell’economia reale.
Bosworth, durante un meeting all-hands, ha dovuto rassicurare i “bootcampers” – i nuovi assunti di Meta – che no, non hanno sbagliato carriera e sì, la loro paga è “al livello giusto”. Tradotto: non stiamo regalando 9 zeri a tutti, ma ai top performer con esperienze chiave in modelli generativi, scaling di LLM o alignment AI… sì, lì il discorso cambia. Altman lo sa. E gli rode. Lo dice Bosworth con una punta di soddisfazione da dirigente che sa di aver giocato una carta vincente.
Meta ha infatti cominciato a far convergere il suo sforzo AI non solo sul versante ricerca, ma anche su un nuovo fronte: creare una divisione interna per la superintelligenza. Non è chiaro quanto sia un piano tecnico e quanto una risposta politica alla fuga di cervelli. Ma le parole contano: “superintelligence” è una parola che OpenAI ha ormai brevettato nell’immaginario collettivo, e se Meta la usa, non è per caso.
Chris Cox, CPO di Meta, durante lo stesso meeting ha messo le mani avanti: Meta non vuole competere direttamente con ChatGPT nella produttività. Non farà la guerra dei prompt da ufficio, lascerà che a scannarsi siano OpenAI, Anthropic e Google. Meta, dice, vuole invece puntare su “entertainment, connessione, e vita reale”. Come dire: se ChatGPT è il tuo nuovo Excel, Meta AI sarà il tuo nuovo Netflix. O almeno ci prova.
Peccato che i dati dicano altro. Il prodotto Meta AI standalone ha solo 450.000 utenti giornalieri, e la metà di questi usa l’assistente per fare cose tipo cambiare canzone sugli occhiali Ray-Ban. A confronto, ChatGPT viaggia su cifre molto più elevate, con engagement qualitativi – scrivere codice, generare presentazioni, sostituire middle manager – che Meta, almeno per ora, non riesce a toccare. Anche perché la UX dei suoi prodotti AI, diciamolo senza troppa diplomazia, sembra ancora uscita da una beta interna mal testata.
Ma torniamo al punto: il vero scontro non è sulla tecnologia, ma sul talento. Sulla narrativa. Meta ha i miliardi e la massa critica per attrarre chiunque. OpenAI ha il prestigio, la missione, e quel profumo di startup con vocazione transumanista. Ma quando Altman va a piangere sul podcast del fratello parlando di offerte “indecenti”, lo fa perché sa di non poter competere sugli stessi terreni. Il mercato è caldo, dice Bosworth, “ma non così caldo”. Eppure, dietro quella frase c’è la consapevolezza che sì, un certo tipo di cervelli oggi vale più del petrolio. Perché senza di loro, i modelli non si allineano, non si scalano, non si vendono.
Altman ha lanciato l’allarme, forse per creare un caso, forse per bloccare il deflusso. Ma il danno è fatto. Quando anche due-tre “heavyweight” di OpenAI saltano il fosso e si portano dietro knowledge non trasferibile, dataset mentali, culture di ingegneria che non si scrivono nei white paper, allora capisci che la guerra dell’AI si gioca sulle persone, non solo sugli algoritmi.
E qui sta l’ironia finale: mentre Meta parla di non voler fare “productivity AI”, sta assumendo gente che ha scritto i foundational models per farla. Mentre OpenAI dice di voler “beneficiare tutta l’umanità”, trattiene talenti con offerte monastiche e NDA più blindate del Fort Knox digitale. In mezzo, un mercato del lavoro in cui un ricercatore top in AI oggi vale come un calciatore di Serie A nel suo prime, con meno pub e più notti insonni davanti a PyTorch.
Alla fine, forse, Bosworth ha ragione: non è tutto come sembra. Ma nemmeno Altman sta raccontando favole. Il fatto che una call to drama su un podcast personale diventi un punto all’ordine del giorno in un meeting globale a Menlo Park ci dice tutto sullo stato dell’arte dell’industria AI. Le vere battaglie si combattono a colpi di narrative, e oggi più che mai, chi controlla il racconto, controlla il capitale umano. E quindi il futuro.