Perfetto, partiamo da quel concetto di “due settimane”. Un’unità di misura temporale elastica, fluida, ideologica, che nell’universo narrativo di Donald Trump funziona come il concetto di “domani” nei romanzi distopici: una promessa che serve a guadagnare tempo, spostare l’attenzione, evitare dettagli concreti. Ogni volta che Trump ha detto “tra due settimane” si è aperta una finestra quantistica dove tutto è possibile, niente è verificabile e nessuno è responsabile. Il tempo, in questo caso, è uno strumento di potere, non un fatto misurabile.

Quando, all’inizio di giugno, ha dichiarato che “avremo grandi novità su TikTok tra due settimane”, era solo l’ennesima replica di un modello comunicativo già abbondantemente rodato. Quella finestra temporale non è un vincolo, è una cortina fumogena. Il problema è che, per quanto il trucco sia noto, continua a funzionare. I media ci cascano, i mercati ondeggiano, e gli avversari politici si arrovellano su come rispondere a qualcosa che, nei fatti, non esiste. È un’arma retorica che gioca con l’ansia dell’attesa, sfrutta la logica del cliffhanger e alimenta l’illusione che ci sia un piano dietro il caos. Ma la verità è che non c’è nessun piano. C’è solo il controllo della narrazione, giorno per giorno, tweet dopo tweet.

Nel caso specifico di TikTok, la situazione è ancora più emblematica. L’idea di costringere ByteDance a vendere l’app a un’entità americana non è nuova. Era già esplosa durante la presidenza Trump nel 2020, in pieno panico da sicurezza nazionale, con Microsoft, Oracle e Walmart in corsa come pretendenti.

Poi è scomparsa. Poi è tornata. Poi è cambiata. Ora, di nuovo, siamo “a due settimane” da una risoluzione. Ma risoluzione di cosa, esattamente? Di un’acquisizione? Di un ban? Di un accordo geopolitico mascherato da M&A? Nulla è chiaro, tutto è strategicamente nebuloso. E nel frattempo TikTok continua a operare, guadagnare e influenzare, come se niente fosse.La verità scomoda è che queste due settimane non esistono. Sono un artefatto linguistico utile a posticipare ogni accountability. Sono l’equivalente verbale di un “coming soon” su uno schermo nero: non dicono niente, ma suggeriscono tutto. È una tecnica che funziona bene con le breaking news perenni, in un ecosistema informativo dove l’attenzione si misura in click e la memoria dura meno di una storia su Instagram. Trump lo sa. Lo ha sempre saputo. Lo usa con la disinvoltura di un illusionista che ha capito che il pubblico non vuole la verità, ma solo un nuovo trucco.

La cosa interessante, però, è che questa retorica delle “due settimane” è ormai entrata nel lessico politico globale. È diventata una specie di benchmark implicito: quando un leader dice “ci vorranno due settimane” sta in realtà dicendo “non chiedetemi nulla fino a quando avrò trovato qualcosa da dire”. Non è una misura del tempo. È una misura della distanza tra l’annuncio e la realtà. Ed è in quel vuoto che si giocano le narrative più pericolose, quelle che sostituiscono i fatti con le percezioni e le intenzioni con le illusioni.

C’è un paradosso interessante in tutto questo. Da un lato, Trump è il simbolo della disintermediazione, del bypassare i media, i processi istituzionali, persino la logica. Dall’altro, continua a dipendere da meccanismi di suspense narrativa classici, quasi hollywoodiani. Il tempo sospeso, la promessa differita, il “big reveal” posticipato. È una forma di storytelling da reality show, applicata alla geopolitica. E se vi sembra folle è perché lo è davvero, ma funziona e se funziona, si replica. Così, ogni due settimane, ci troviamo di nuovo qui.Nel frattempo, l’industria tech, i venture capitalist, i regulator e gli utenti si muovono in uno spazio narrativo deformato. Si fanno previsioni basate su dichiarazioni che non hanno alcun valore vincolante. Si costruiscono modelli di rischio, si preparano comunicati, si consultano esperti di diritto internazionale e di sicurezza informatica per interpretare cosa potrebbe succedere… tra due settimane. Ma la verità è che nulla succede mai in quel lasso di tempo e quando qualcosa succede, è raramente riconducibile alla timeline annunciata.

A questo punto vale la pena chiedersi: perché nessuno mette seriamente in discussione questo meccanismo? Perché continuiamo a trattare le “due settimane” come se fossero un’unità temporale reale? Perché ci ostiniamo a cercare coerenza in un linguaggio progettato per evitarla? Forse perché ci piace l’idea che il caos abbia una scadenza. Che ci sia un calendario segreto dove le risposte arriveranno puntuali, anche se oggi non le abbiamo. È una forma di autoinganno collettivo, una zona di comfort cognitivo.

Ma chi lavora nella tecnologia, nell’innovazione, nell’economia reale, non può permettersi questo lusso. Le decisioni devono essere prese ora, sulla base di dati concreti, non su attese indefinite e qui entra in gioco il vero costo delle “due settimane”: la paralisi decisionale. L’incapacità di agire perché tutto potrebbe cambiare, o forse no. È il peggiore dei mondi possibili per chi costruisce prodotti, strategie, roadmap è una trappola semantica che congela il futuro.Ironico, in fondo, che proprio TikTok, piattaforma regina dell’istantaneità, sia ostaggio di una logica dilatoria. L’app che vive di secondi, di velocità, di scroll compulsivo, bloccata in un limbo di “due settimane”. Una dicotomia perfetta, quasi poetica. Come se il tempo reale fosse la vera minaccia per chi ha costruito il suo potere sul tempo sospeso.

Trump ha capito qualcosa che i suoi avversari faticano ancora ad accettare: non serve avere ragione, basta avere controllo sul tempo percepito e finché le “due settimane” continueranno a funzionare come detonatori di attenzione e come scudo contro la verifica, continueranno a essere l’arma perfetta. Per tutti gli altri, resta solo una domanda: quanto durano davvero, queste due settimane?