ovvero come la tech élite sta disperatamente cercando un redento da esibire in pubblico mentre affonda nella sua stessa mitologia

Quando inizia a girare nei corridoi di Sand Hill Road la voce che serva “un JD Vance della Silicon Valley”, il primo pensiero non è tanto la nostalgia per l’Ohio rurale quanto il panico esistenziale di una classe dirigente che, dopo aver glorificato l’ingegnere asociale e la cultura del blitzscaling, si ritrova culturalmente orfana. JD Vance, per chi avesse trascorso l’ultimo decennio chiuso in una capsula criogenica, è l’autore di Hillbilly Elegy, una specie di epitaffio narrativo per la working class bianca americana, riconvertitosi in politico trumpiano come da manuale post-apocalittico. Silicon Valley vorrebbe un personaggio così, ma in chiave tech. Un redento. Uno che venga dal fango ma mastichi JavaScript.

Ma non lo trova. Perché la narrativa di riscatto, per funzionare, ha bisogno di un elemento fondamentale: la distanza tra il prima e il dopo. E la Silicon Valley, nella sua bolla da 20 milioni di dollari al miglio quadrato, ha cancellato la povertà materiale ma non quella culturale. Per intendersi, qui si può essere “disadattati” perché non si è andati a Stanford, o perché si è cresciuti a 30 chilometri di distanza da Cupertino, dove non c’era l’accesso a una connessione in fibra a 500 Mbps. Tragedie, sì, ma su scala di byte. Non su scala umana.

Il problema è che oggi, nell’era dell’AI generativa e dell’automazione dei cervelli, la Silicon Valley ha finito il carburante narrativo. Ha bisogno di storie. Ma non ha più i personaggi. Le figure alla Elon Musk, diventate meme viventi, sono troppo sopra le righe per reggere una nuova mitologia fondativa. I fondatori di una volta sono diventati investitori angelici in cerca di startup che facciano “copilot per X”. E i nuovi arrivati? Spesso sono dei prompt engineer con un canale YouTube e l’abbonamento a Midjourney Pro. Poco epici, troppo sintetici.

Ecco quindi la nuova ossessione: trovare un protagonista credibile per il prossimo ciclo di autocelebrazione. Qualcuno che dica “vengo da fuori”, ma con l’account GitHub a supporto. Qualcuno che racconti il disagio di crescere a Fresno senza accesso a Y Combinator, ma che ora riesce a fare exit a 8 cifre grazie a un’app che ottimizza i workflow di chi ottimizza i workflow. Uno JD Vance che però conosca le API di Stripe.

Il punto è che la Silicon Valley non ha mai davvero accettato l’idea di essere parte dell’America. Ha sempre preferito vedersi come una colonia autonoma del futuro, un microstato con regole proprie, moralità propria, economia propria. E quindi, quando tenta di importare il modello narrativo di Vance — quello della redenzione, del ritorno, della riflessione post-industriale — finisce per creare qualcosa di caricaturale. Perché qui, la caduta e la rinascita non hanno odore di fonderia o di metanfetamina, ma di burnout e iterazioni di pitch falliti.

Chiunque abbia provato a scrivere un “memoir della tech povera” lo sa: o sei abbastanza dentro da risultare complice, o abbastanza fuori da essere irrilevante. La terra di mezzo non esiste. E per questo motivo, Silicon Valley resta in una crisi di rappresentazione. Ha bisogno di un eroe culturale, ma tutti quelli disponibili sono troppo filtrati, troppo costruiti, troppo… promptati. La narrazione organica, quella che genera empatia e legittimazione pubblica, qui ha il sapore del contenuto generato da IA con ottimizzazione SEO. Perfetto per la Google Search Generative Experience, disastroso per il cervello umano.

C’è da chiedersi se la mancanza di un JD Vance tech equivalga in realtà al fallimento strutturale del sogno californiano. La Valley nasce come utopia meritocratica, si evolve in plutocrazia algoritmica, e ora si risveglia come distopia narrativa. E allora forse non serve un redento da libro. Forse servirebbe ammettere che non c’è più nulla da redimere. Che la grande storia del nerd sfigato diventato unicorno è stata scalata, impacchettata, venduta su Amazon e trasformata in docuserie Netflix con una media di 3.7 su IMDb.

In tutto questo, il vero paradosso è che il modello JD Vance rappresenta proprio ciò che la Silicon Valley ha sempre dichiarato di voler superare: la nostalgia, il tribalismo, il fatalismo culturale. Eppure, in mancanza di alternative, eccola lì, la tech élite, che guarda al Midwest con invidia. Che cerca nel Kentucky la scintilla perduta della propria narrativa. Che prova a importare l’autenticità come si importa un framework: clonando repository narrativi che non le appartengono.

Non serve un JD Vance. Serve smettere di cercarlo. Serve, semmai, qualcuno che racconti la fine della Silicon Valley come macchina mitopoietica. Qualcuno che scriva l’epilogo, non l’origin story. E magari lo faccia senza bisogno di una fondazione no-profit, di una campagna su Substack o di una strategia di growth hacking. Un’eresia, lo so. Ma persino a Cupertino, ogni tanto, qualcuno dovrebbe spegnere il pitch deck e ascoltare il silenzio.