Quando pensiamo ai robot negli hotel, l’immagine romantica è quella di un androide impeccabile che ci accoglie con un sorriso perfetto, senza mai sbagliare un nome o una prenotazione. La realtà però è meno hollywoodiana e molto più inquietante. Il caso emblematico è il giapponese Henn-na Hotel, noto come il “strano hotel”, dove centinaia di robot umanoidi hanno tentato di sostituire il personale umano già dal 2015. L’esperimento ha avuto un successo di pubblico e stampa solo inizialmente, per poi scontrarsi con la dura verità del cosiddetto “uncanny valley”: quell’effetto straniante, quasi disturbante, che si prova di fronte a macchine che somigliano troppo agli esseri umani ma che falliscono nell’imitarne con precisione ogni sfumatura.

Il video virale su TikTok, con una donna che si allontana ridendo nervosamente davanti a un robot dal volto umanoide, non è solo un momento comico o una curiosità da social. È un sintomo di una paura più profonda, che attraversa la psiche collettiva: non sono i robot in sé a spaventare, ma quel loro apparire come copie sbiadite di noi, senza anima, senza calore, un’imitazione che innesca un senso di minaccia più che di benvenuto.

Il boom del mercato dei robot nell’ospitalità, previsto in crescita esponenziale fino a 2,2 miliardi di dollari entro il 2030, si basa più su automazione e ottimizzazione dei costi che su un vero miglioramento dell’esperienza cliente. Sì, ci sono casi di robot che consegnano cibo, puliscono corridoi o rispondono a domande semplici, ma l’illusione del volto umano resta un limite insormontabile. La clientela è divisa: c’è chi abbraccia la novità come un divertente elemento futuristico e chi, invece, prova disagio e persino paura. Nel 2023 un report di Boutique Hotelier ha rilevato che il 61% degli ospiti reagisce positivamente ai robot, ma un preoccupante 28,5% esprime timore. Numeri che fotografano un terreno in continuo mutamento, dove tecnologia e psicologia si intrecciano.

L’esperienza del Henn-na Hotel è paradigmatica. Dopo il lancio con oltre 240 robot, la struttura ha dovuto licenziare metà dello staff robotico per problemi tecnici e insoddisfazione degli ospiti. Le macchine si bloccavano, non rispondevano correttamente, creavano più problemi che soluzioni. La strategia di “automazione spinta” si è rivelata un boomerang. Eppure, nonostante tutto, la catena ha mantenuto alcuni robot alla reception, in una sorta di convivenza inquieta tra uomo e macchina, forse più simbolica che pratica.

Altrove, esempi simili raccontano di robot come Pepper, introdotto nel 2017 al Mandarin Oriental Las Vegas, diventato un’icona di “ambasciatore tecnico”. Pepper riusciva a intrattenere gli ospiti, a rispondere a domande e persino a ballare, ma alla fine è stato ritirato dopo aver subito danni da visitatori. Il messaggio è chiaro: la tecnologia può essere innovativa, ma il contatto umano resta fragile e irrinunciabile. Chi paga il prezzo più alto? La pazienza e la tolleranza dell’utente finale, che si ritrova a dover convivere con un androide che sembra un ospite indesiderato a una festa elegante.

In effetti, mentre la stampa enfatizza le presenze robotiche, gli addetti ai lavori sottolineano che la vera rivoluzione avviene dietro le quinte. Wyatt Mayham, CEO di Northwest AI Consulting, ci ricorda che l’obiettivo non è sostituire il personale di front office con androidi inquietanti, ma integrare sistemi AI per ottimizzare operazioni, ridurre inefficienze e mantenere alto il livello del servizio. Questi investimenti “nascosti” nella digitalizzazione della gestione alberghiera rappresentano la vera trasformazione, meno appariscente ma ben più concreta e sostenibile.

Il paradosso è evidente: più i robot diventano realistici, più creano disagio, mentre i sistemi AI più invisibili ma efficaci sono accettati e apprezzati. È un gioco di specchi dove l’innovazione tecnologica deve confrontarsi con la biologia umana, la psicologia e l’esperienza sensoriale. Chi ha progettato il check-in robotico al Henn-na avrebbe dovuto sapere che una smorfia digitale e un sorriso sintetico non bastano a sostituire un sorriso vero, anche quando quello umano è un po’ stanco dopo un lungo viaggio.

Per i leader tecnologici e CEO che vogliono investire nell’ospitalità del futuro, la lezione è questa: l’innovazione deve andare oltre l’effetto wow. Non serve stupire con androidi che sembrano “quasi umani” e scatenano reazioni da film horror. Serve creare sistemi intelligenti che migliorino l’esperienza in modo invisibile, con pragmatismo e attenzione alla psicologia dell’utente. L’ospitalità non è solo tecnologia, ma relazione, empatia e, sì, un po’ di quel tocco umano che nessun robot potrà mai davvero replicare.

Se vi trovate davanti a un robot dall’espressione vagamente inquietante, ricordate che l’era dell’automazione negli hotel è ancora agli inizi e la vera sfida non è costruire androidi, ma capire come far convivere la fredda precisione della macchina con il calore imperfetto dell’essere umano. Fino a quel momento, preparatevi a ridere nervosamente o a fare un passo indietro, proprio come la signora giapponese del video virale, che ha compreso meglio di molti che la tecnologia senza cuore resta solo un’illusione.