Il genio si sta stancando, e non solo lui. Le sue creature – più siliconate che siliconiche – stanno cominciando a mostrare i segni della decadenza. Elon Musk, l’uomo che ha trasformato l’automobile in un’ideologia e l’intelligenza artificiale in uno show da sabato sera, ha appena collezionato un’altra settimana da incubo. Martedì, Donald Trump ha ironizzato sull’espulsione di Musk dagli Stati Uniti, come se fosse un influencer molesto e non l’uomo che ha portato il razzo su Twitter. Mercoledì, Tesla ha annunciato un crollo del 13,5% nelle consegne nel secondo trimestre, un risultato che fa sembrare il declino del primo trimestre quasi elegante. E giovedì, gli analisti hanno preso i loro modelli previsionali, li hanno guardati negli occhi e hanno cominciato a declassarli come fossero obbligazioni greche nel 2011.

Ma il problema non è solo numerico. È narrativo. Musk, il maestro delle storie, colui che vendeva sogni su ruote con la stessa sicurezza con cui prometteva di colonizzare Marte, si ritrova oggi a raccontare una favola che nessuno ha più voglia di ascoltare. Tesla, per quanto continui a generare entusiasmo tra gli irriducibili del culto, sta subendo quello che nel gergo finanziario si chiama il “momento Kodak”: il punto in cui l’innovazione diventa convenzione e il futuro diventa ieri.

Nel primo trimestre dell’anno, il fatturato automobilistico è crollato del 20%. Eppure Musk ha sventolato con orgoglio la crescita del 67% nella divisione energia, come se vendere pannelli solari potesse coprire il buco lasciato dalle Model 3 che non si vendono più. La verità è che, anche includendo tutto il contorno – produzione energetica, servizi, merchandising da fanboy – le auto restano il 70% del business. Quando quelle arrancano, tutto il castello inizia a scricchiolare. E con un utile netto crollato del 71% nel primo trimestre, non è difficile immaginare dove ci porterà il secondo.

Gli analisti, quei professionisti dell’ottimismo ben temperato, avevano previsto un calo dell’1,5% nel fatturato annuale. Martedì mattina parlavano ancora di un -0,7%. Martedì sera già sembrava troppo ottimistico l’1,5%. Una marcia indietro così rapida che avrebbe fatto impallidire anche la Cybertruck nei suoi test di manovra. Perché il problema è che, se anche Tesla riuscisse a contenere le perdite nel primo semestre, il secondo dovrebbe essere un miracolo a pedali. E i miracoli, come sappiamo, hanno bisogno di fede. Ma Musk sta perdendo adepti.

L’America, intanto, sta perdendo interesse per il giocattolo elettrico. I crediti d’imposta per le auto elettriche – quel doping di Stato che ha fatto sembrare il mercato più sano di quanto non fosse – stanno per essere eliminati. A partire dal 30 settembre, il Big Beautiful Bill di Trump (che di bello ha solo il sarcasmo involontario del nome) taglierà le gambe a molte EV, Tesla inclusa. E con il supporto politico evaporato sia tra i Democratici che tra i Repubblicani – un’impresa degna di nota, riuscire a farsi odiare bipartisan – Musk si ritrova a ballare da solo su una pista che si restringe.

Ma non temete, Elon ha una soluzione. Anzi, due. I robotaxi e i robot umanoidi. Fantastico. Se il problema è la domanda stagnante di automobili, cambiamo la narrazione: da venditori di auto a pionieri della mobilità senza conducente. Peccato che i robotaxi siano ancora un esperimento circoscritto ad Austin, Texas, e che anche i più ottimisti tra gli analisti considerino irrealistico un impatto significativo prima della seconda metà del 2025. Lo stesso Musk, con l’entusiasmo da venditore di enciclopedie nel deserto, ha promesso che il 2025 sarà “un anno cruciale” per Tesla. Ma non ha specificato in quale senso.

Se Tesla fosse un romanzo distopico, questo sarebbe il capitolo della disillusione. L’eroe solitario, dopo aver sconfitto il sistema e rivoluzionato l’industria, si ritrova circondato da nemici vecchi e nuovi: la concorrenza cinese che avanza, i sussidi statali che evaporano, l’opinione pubblica che lo considera sempre più un miliardario eccentrico e sempre meno un visionario. E mentre lui parla di intelligenze artificiali, di Optimus (non Prime) e di future civiltà interplanetarie, i numeri gli ricordano che il business, per quanto elevato possa essere il tono, resta fatto di vendite, margini e utili.

Tesla ha bisogno di una rivoluzione. Non quella dei robot, ma una rivoluzione di strategia. O forse, più brutalmente, di realismo. La saturazione del mercato EV non è una congiura, è una dinamica fisiologica. Quando ogni startup cinese può sfornare un’auto con specifiche simili a metà prezzo, il vantaggio competitivo si erode in fretta. E non basta più il fascino di Musk per convincere un mercato disincantato. I consumatori cominciano a chiedersi se l’auto elettrica sia davvero il futuro o solo una transizione costosa verso un’ibridazione più intelligente. Gli investitori iniziano a fare i conti con la dura realtà dei multipli compressi e dei margini in contrazione. E la stampa, che fino a poco fa pendeva dalle labbra del CEO con la stessa devozione di un oracolo, comincia a riscoprire l’ironia.

A questo punto, c’è solo una certezza: il 2025 sarà davvero cruciale. Perché se Musk riuscirà nell’impresa di trasformare Tesla in una piattaforma di servizi autonomi, potrà riscrivere per l’ennesima volta le regole del gioco. Ma se la promessa si rivelerà un’altra illusione, l’epopea potrebbe trasformarsi in una parabola discendente. E l’uomo che ha fatto tremare Detroit con un tweet, potrebbe scoprire che anche le leggende, ogni tanto, finiscono nei saldi di fine stagione.

Nel frattempo, Tesla dovrà cavarsela con la matematica, non con i sogni. E Musk, l’uomo del futuro, dovrà fare i conti con un presente che non si lascia più incantare.