Sembra la sceneggiatura di una serie HBO andata fuori controllo: attori ricorrenti, plot twist prevedibili ma sempre rumorosi, e un protagonista che annuncia “nessuna proroga” per poi concederne una con l’entusiasmo di un venditore di multiproprietà a Las Vegas. Donald Trump è tornato, con la delicatezza di un bulldozer in cristalleria, a minacciare il mondo con la sua visione distorta del “reciprocal trade”. E questa volta, giura, fa sul serio. Almeno fino a quando non cambia idea.
La scadenza, che avrebbe dovuto essere il 9 luglio, è magicamente slittata all’1 agosto. Ma non chiamatela retromarcia: è “una scadenza ferma, ma non al 100% ferma”. In pratica, una definizione che in logica quantistica potrebbe avere un senso. Per Trump, invece, è solo l’ennesima mossa nel suo reality geopolitico preferito: mettere i partner commerciali uno contro l’altro, minacciarli con tariffe del 25% o più, e poi dare loro la possibilità di salvarsi con un’offerta last minute. Non un piano economico, ma una roulette diplomatica. E nel frattempo, i mercati oscillano come ubriachi su una nave in tempesta.
La parola magica, ancora una volta, è “reciprocità”. Un concetto nobile, se non venisse usato come una clava per giustificare imposizioni unilaterali a chiunque non si allinei al vangelo del “Buy American”. Il fatto che le relazioni commerciali siano fatte di equilibri complessi, di filiere globali, di compromessi multilaterali, per Trump è irrilevante. Conta solo l’impatto sul talk show serale di Fox News.
In tutto ciò, il tempismo è perfetto: l’economia globale è già sotto pressione, i segnali di recessione si moltiplicano, le supply chain sembrano sopravvissute a un’era glaciale, e il presidente statunitense decide di alzare i dazi contro Giappone, Corea del Sud, e perfino paesi come Laos e Cambogia. In fondo, non è importante chi siano i destinatari: ciò che conta è alimentare il mito di un’America sfruttata e derubata da tutti. Se serve sacrificare la fiducia internazionale e un paio di trilioni in scambi commerciali, pazienza.
Il tutto si inserisce nella narrazione ossessiva del “deal-maker”. Trump promette “90 accordi in 90 giorni”, come se fossero cheeseburger al drive-through. In realtà, l’unico vero risultato è una serie di lettere precompilate spedite in blocco ai partner commerciali, con l’eleganza di uno spam da principe nigeriano. Lettere in cui si minacciano tariffe del 25% e oltre, a partire dal primo agosto. E no, non ci saranno proroghe. Tranne se ci sarà un’offerta che gli piace. Il principio guida? L’intuizione personale, ovviamente. Perché la geopolitica globale, come è noto, va gestita col “gut feeling”.
L’ironia è che, mentre gli analisti si affannano a comprendere i meccanismi delle tariffe, la vera logica trumpiana è molto più semplice: creare caos, generare paura, e poi vendere la propria decisione come un compromesso ragionevole. Il pattern è talmente ricorrente che i mercati hanno coniato un termine ad hoc: “Taco”, acronimo di “Trump always chickens out”. La minaccia arriva, i titoli crollano, poi arriva il tweet rassicurante e la borsa si riprende. Come un algoritmo predittivo con un pizzico di psicodramma narcisistico.
Nel frattempo, gli accordi che vengono celebrati come “storici” sono in realtà cornici vuote. L’accordo con il Regno Unito, ad esempio, ha portato a una tariffa aggiuntiva del 10%, che oggi viene considerata il minimo sindacale. Poi è arrivata la Cina, con un aumento del 30% – ma in quel caso le dinamiche sono talmente stratificate da rendere il confronto con altri partner quasi grottesco. E ora il Vietnam, che ha accettato un 20% sulle sue merci e addirittura il 40% su quelle cinesi in transito. Il messaggio? Chiunque può essere colpito, nessuno è davvero al sicuro.
E mentre si parla di commercio, in realtà si parla di potere. I dazi diventano armi di pressione politica, strumenti di ricatto strategico. Trump non si limita a colpire per motivi economici: tira in ballo la sicurezza nazionale, la lotta alla droga, l’immigrazione illegale. Se un paese non blocca abbastanza fentanyl o permette troppi arrivi clandestini, ecco che parte il dazio. È la politica estera trasformata in una telepromozione aggressiva.
Dietro la cortina fumogena degli annunci roboanti, resta il fatto che l’America sta lentamente ma inesorabilmente erodendo la propria credibilità. Non si tratta solo di aumentare i costi per i partner commerciali – si tratta di rendere impossibile qualsiasi forma di pianificazione. Perché trattare con un paese che cambia idea ogni due settimane, che firma un accordo oggi e domani lo disconosce, che considera ogni compromesso una debolezza da correggere con un nuovo ultimatum? La risposta di molti alleati è chiara: un misto di frustrazione, rassegnazione e cinismo.
Il problema, ovviamente, non è solo simbolico. Secondo un recente studio di JPMorganChase Institute, l’attuale livello dei dazi comporterà costi aggiuntivi per 82 miliardi di dollari per le aziende di medie dimensioni americane. Queste aziende rappresentano circa un terzo dei posti di lavoro nel settore privato degli Stati Uniti. A quanto pare, però, nel mondo magico di Trump, questi costi li pagano gli altri. “I dazi non costano nulla, li pagano gli stranieri”, ripete come un mantra. Peccato che la realtà continui a smentirlo con puntualità svizzera.
Persino le aziende high-tech iniziano a percepire la schizofrenia delle scelte tariffarie. Solo la scorsa settimana, tre grandi produttori di software per il design di chip hanno scoperto che le restrizioni all’export verso la Cina erano state rimosse – senza alcun annuncio ufficiale. Decisioni che sembrano prese su un capriccio, o peggio, su un tweet notturno.
Il quadro che emerge è quello di una diplomazia economica non tanto aggressiva, quanto sgangherata. Un continuo gioco al rialzo senza logica apparente, dove le mosse vengono dettate più dalla volontà di impressionare l’elettorato interno che da una strategia coerente. Ogni settimana si annuncia un nuovo pacchetto, una nuova vittoria, una nuova minaccia. Ma sotto la superficie, i risultati concreti latitano.
Eppure, nonostante tutto, c’è un metodo in questa follia. Come osserva Henrietta Treyz, i dazi al 10% sono solo l’inizio: “Sono il pavimento, non il soffitto”. L’obiettivo è alzare la posta in gioco, costringere i partner a rincorrere, e poi concedere un’apparente concessione che in realtà è solo una trappola a lungo termine. Perché ogni accordo porta con sé il rischio implicito di futuri aumenti tariffari, di nuovi capitoli settoriali, di nuove condizioni imposte unilateralmente.
In altre parole, Trump sta cercando di trasformare il commercio globale in una partita di Risiko dove lui decide le regole, cambia i confini, lancia i dadi truccati e pretende di vincere ogni volta. Il problema è che il mondo reale non funziona così. E ogni volta che un partner si ritira, ogni volta che un’azienda rivede i propri piani, ogni volta che un investimento viene congelato, il conto lo pagano tutti. Anche l’America. Anche chi crede di essere il giocatore con la scatola del gioco in mano.
Ma forse è proprio questo il messaggio subliminale: l’era dell’interdipendenza è finita, sostituita da un’era di transazioni isolate, aggressive, improvvisate. Un mondo dove non esistono alleanze, solo rapporti di forza. E dove ogni negoziazione è una gara a chi urla più forte. Benvenuti nel circo delle tariffe, dove lo spettacolo continua, ma il biglietto d’ingresso è sempre più salato.