C’è una vecchia battuta tra veterani del commercio internazionale: “L’unico modo per far capire a un americano cos’è un dazio è che glielo faccia pagare un altro Paese”. Peccato che oggi, a infliggerli, sia proprio l’America. Non un’America qualsiasi, ma quella reinventata a immagine e somiglianza del suo patriarca arancione, tornato a occupare lo Studio Ovale come un magnate che rileva un’azienda in crisi e la risana con tagli, intimidazioni e grida. Donald Trump, al suo secondo giro da presidente, ha deciso che il tempo delle negoziazioni è finito, i trattati multilaterali sono per i deboli e che la politica commerciale può essere fatta con lettere scritte a macchina, spolverate di maiuscole strategiche e sigillate con l’intuito del “gut feeling”.

La notizia che il 1º agosto gli Stati Uniti imporranno dazi del 30% su beni provenienti dal Messico e dall’Unione Europea è solo l’ultima mossa di un piano tanto improvvisato quanto coerente: riscrivere le regole del commercio globale come se fossero clausole di un reality show finanziario. Secondo Trump, i deficit commerciali americani sono un problema di sicurezza nazionale. Sì, proprio così. Come se la Volkswagen o il pecorino romano minacciassero il Pentagono. E se qualcuno si domanda dove sia finita la logica economica, la risposta è semplice: sepolta sotto i tweet presidenziali e le “great letters” spedite a capi di Stato come cartoline da una Las Vegas geopolitica.
La keyword qui è chiara: dazi USA. Infiltrata in ogni analisi seria, in ogni dichiarazione offesa, in ogni calcolo Excel dei ministri delle finanze europei e messicani. Correlate ci troviamo le immancabili relazioni transatlantiche e il sempreverde deficit commerciale USA, trio semantico che danza sul filo del rasoio tra analisi tecnica e teatro dell’assurdo.
È difficile decidere cosa sia più surreale: l’idea che il Messico debba essere punito con dazi per non aver eliminato il fentanyl come se fosse un prodotto agricolo da eradicare, o il fatto che l’Unione Europea venga trattata alla stregua di un fornitore recalcitrante di Amazon. Il tutto mentre la stessa amministrazione Trump minaccia dazi del 10% ai Paesi BRICS per il reato di “politiche antiamericane” e impone un bel 50% di tariffa al Brasile in solidarietà all’amico Jair Bolsonaro, impegnato a difendersi da accuse di corruzione con la grazia di un elefante in un’aula di tribunale.
Che cosa dice tutto questo agli attori globali? Che l’America, un tempo garante del sistema multilaterale e dei suoi valori, oggi è diventata un creditore esoso con inclinazioni narcisistiche. La narrazione dominante di Trump si basa su un postulato tanto semplice quanto infantile: “se noi compriamo più di quanto vendiamo, allora ci stanno fregando”. E la soluzione? Tasse, minacce, ricatti. Tutto in nome di un patriottismo economico che fa impallidire persino le tariffe doganali dell’era Reagan.
Nel mezzo ci sono le multinazionali, i produttori agricoli americani che già sentono la stretta dei contraccolpi, e una diplomazia che non sa più se servire il Paese o interpretare le parabole commerciali di un presidente che mescola la macroeconomia con la retorica dei talk show. “Non sarete mai delusi dagli Stati Uniti d’America”, scrive Trump nelle sue lettere. Il problema è che ormai pochi lo prendono alla lettera. I partner commerciali oscillano tra il sarcasmo e l’allerta rossa, mentre a Bruxelles si preparano pacchetti di rappresaglie come fossero valigie per un viaggio in trincea.
Gli economisti si affannano a spiegare che i dazi non riducono necessariamente i deficit, ma aumentano i costi per i consumatori americani e danneggiano le catene di fornitura internazionali. Ma a Trump poco importa: l’obiettivo non è l’equilibrio, ma il dominio. Non la cooperazione, ma la sottomissione. È la geopolitica trasformata in un algoritmo da venditore: impaurisci, sorprendi, chiudi il contratto. Altrimenti, aumenta la tariffa.
Nel frattempo, il resto del mondo osserva e registra. I sondaggi mostrano un aumento di Paesi che vedono gli Stati Uniti come una minaccia, più che come un alleato affidabile. La Cina, paradossalmente, guadagna terreno nella percezione pubblica globale mentre Washington brucia il proprio soft power come un SUV a benzina in una maratona green. In Asia, in America Latina, in Africa, cresce la sensazione che l’egemonia americana non sia più una garanzia ma un’incognita. E se nel passato l’isolazionismo era una scelta, oggi è una strategia ricorsiva. Come se il mondo intero fosse diventato un satellite orbitante intorno alla Casa Bianca, con l’obbligo di versare dazi per non cadere in disgrazia.
La narrazione ufficiale continua a ostentare ottimismo: “abbiamo grandi accordi in arrivo”, ha detto Trump con riferimento all’India. Ma dietro le quinte, le trattative ristagnano, i partner si irrigidiscono, e le “90 deals in 90 days” si sono trasformate in una lista di promesse mancate, costellate da minacce unilaterali e calendari che mutano più in fretta dei dati macroeconomici. Quello che resta è un’America che sembra più interessata a dettare condizioni che a costruire soluzioni. Una superpotenza in perenne campagna elettorale, dove le politiche commerciali si decidono sulla base dell’audience e dei sondaggi interni piuttosto che dei fondamentali economici.
In questo scenario, la figura della presidente messicana Claudia Sheinbaum diventa emblematica: riceve lettere come se fosse una dipendente inadempiente, accusata di non fare abbastanza per fermare l’immigrazione clandestina e il narcotraffico, mentre il suo Paese continua a essere il primo partner commerciale degli Stati Uniti. Non è solo una questione di equilibri geopolitici, ma di una retorica tossica che trasforma la diplomazia in una rissa da bar.
In Europa, il contrasto è altrettanto evidente. Germania cerca una via diplomatica per proteggere la propria industria, mentre la Francia di Macron punta i piedi e chiede rappresaglie immediate. L’Unione Europea, mai del tutto unita nelle questioni commerciali, oggi si trova davanti a un bivio: cedere alla pressione americana o riscoprire un’autonomia strategica che non si traduca solo in dichiarazioni indignate ma in azioni concrete. Anche perché la credibilità dell’UE come attore globale si gioca proprio in queste fasi: accettare l’ultimatum o reagire con fermezza. E sì, magari iniziare a pensare a una politica industriale e commerciale che non sia solo una risposta passiva ai colpi americani.
In fondo, tutto questo racconta un mutamento profondo: il passaggio dalla globalizzazione delle regole alla globalizzazione delle minacce. L’era in cui si negoziava attorno a tavoli multilaterali lascia il posto a un teatro di annunci, lettere e tariffe dove il principio guida non è più la reciprocità ma la subordinazione. Trump non fa mistero del suo disprezzo per le istituzioni multilaterali. Secondo lui, la UE esiste per “fregare l’America”, e la NATO è un carrozzone inutile. In questo mondo capovolto, ogni trattato è un ostacolo, ogni alleato è un debitore, ogni deficit è un affronto.
La realtà, però, è testarda. Le economie sono interconnesse. Le filiere globali non si riscrivono con un comunicato stampa. E il prestigio non si impone con una tariffa del 30%. Ma finché lo spettacolo dura, Trump recita il suo ruolo con feroce coerenza: il tycoon che ha trasformato l’economia internazionale in un’estensione della sua brand identity. L’America First, in fondo, è solo il claim pubblicitario di un’azienda che ha deciso di trasformare il mondo in un mercato captive. Solo che qui non si vendono beni. Si vende potere. E si incassa in dazi.
La lettera di Donald Trump a Ursula von der Leyen:
«Gentile Signora Presidente, è per me un grande onore inviarle questa lettera, in quanto dimostra la forza e l’impegno delle nostre relazioni commerciali e il fatto che gli Stati Uniti d’America abbiano accettato di continuare a collaborare con l’Unione Europea, nonostante uno dei nostri maggiori deficit commerciali con voi.
Ciononostante, abbiamo deciso di andare avanti, ma solo con un COMMERCIO più equilibrato ed equo.
Pertanto, vi invitiamo a partecipare alla straordinaria economia degli Stati Uniti, di gran lunga il mercato numero uno al mondo.
Abbiamo avuto anni per discutere delle nostre relazioni commerciali con l’Unione Europea e abbiamo concluso che dobbiamo abbandonare questi deficit commerciali a lungo termine, ampi e persistenti, generati dalle vostre politiche tariffarie e non tariffarie e dalle vostre barriere commerciali.
Le nostre relazioni sono state, purtroppo, tutt’altro che reciproche.A partire dall’1 agosto 2025, applicheremo all’Unione Europea una tariffa di solo il 30% sui prodotti Ue spediti negli Stati Uniti, distinta da tutte le tariffe settoriali.
Le merci trasbordate per eludere una tariffa doganale più elevata saranno soggette a tale tariffa doganale più elevata.
Vi preghiamo di comprendere che il 30% è di gran lunga inferiore a quanto necessario per eliminare il divario di deficit commerciale che abbiamo con l’Ue.
Come sapete, non ci saranno tariffe doganali se l’Unione Europea, o le aziende all’interno dell’Ue, decideranno di costruire o produrre prodotti negli Stati Uniti e, di fatto, faremo tutto il possibile per ottenere le autorizzazioni rapidamente, professionalmente e regolarmente – in altre parole, nel giro di poche settimane.
L’Unione Europea consentirà un accesso completo e aperto al mercato degli Stati Uniti, senza che ci vengano addebitate tariffe doganali, nel tentativo di ridurre l’elevato deficit commerciale.
Se per qualsiasi motivo decidete di aumentare le vostre tariffe e di reagire, l’importo, qualunque sia l’aumento scelto, verrà aggiunto al 30% che applichiamo.
Vi preghiamo di comprendere che queste tariffe sono necessarie per correggere i molti anni di politiche tariffarie e non tariffarie e barriere commerciali dell’Unione Europea che causano gli ingenti e insostenibili deficit commerciali a carico degli Stati Uniti.
Questo deficit rappresenta una grave minaccia per la nostra economia e, di fatto, per la nostra sicurezza nazionale! Non vediamo l’ora di collaborare con voi come vostro partner commerciale per molti anni a venire.
Se desiderate aprire i vostri mercati commerciali, finora chiusi, agli Stati Uniti ed eliminare le vostre politiche tariffarie e non tariffarie e le barriere commerciali, potremmo valutare una modifica a questa lettera.
Vi preghiamo di comprendere che queste tariffe sono necessarie per correggere i molti anni di politiche tariffarie e non tariffarie e barriere commerciali dell’Unione Europea che causano gli ingenti e insostenibili deficit commerciali a carico degli Stati Uniti.
Questo deficit rappresenta una grave minaccia per la nostra economia e, di fatto, per la nostra sicurezza nazionale! Non vediamo l’ora di collaborare con voi come vostro partner commerciale per molti anni a venire.
Se desiderate aprire i vostri mercati commerciali, finora chiusi, agli Stati Uniti ed eliminare le vostre politiche tariffarie e non tariffarie e le barriere commerciali, potremmo valutare una modifica a questa lettera.
Queste tariffe potrebbero essere modificate, al rialzo o al ribasso, a seconda del nostro rapporto con il vostro Paese.
Non rimarrete mai delusi dagli Stati Uniti d’America.
Grazie per l’attenzione a questa questione.
Con i migliori auguri,
Donald J. Trump».