Jensen Huang è atterrato a Pechino con il sorriso di chi sa di avere vinto almeno un round nella guerra tecnologica più costosa del decennio. Il fondatore e CEO di Nvidia, vestito con la sua solita giacca di pelle da rockstar dell’hardware, non è venuto per stringere mani e scattare foto, ma per riaffermare un principio quasi banale nel mondo reale ma rivoluzionario nel teatro geopolitico dell’intelligenza artificiale: “il mercato cinese non si può ignorare”. Lo ha detto, più o meno, tra un meeting con i funzionari governativi e un’apparizione alla China Council for the Promotion of International Trade. Solo che stavolta la frase non è retorica. È una minaccia sottile a Washington e un inchino strategico a Pechino.
Il chip H20, l’oggetto del contendere, non è un mostro di potenza come l’H100 o l’A100, ma un compromesso ingegnerizzato con chirurgica precisione per rispettare i limiti imposti dalle restrizioni statunitensi. Tradotto: abbastanza potente da alimentare modelli linguistici e applicazioni industriali avanzate, abbastanza castrato da non far scattare le sanzioni. E qui arriva il colpo di scena. Gli Stati Uniti, con una mossa che puzza di realpolitik più che di patriottismo tecnologico, hanno “assicurato” Nvidia che i permessi di esportazione verranno concessi. Huang, intervistato dalla CGTN, non ha fatto mistero della sua soddisfazione, definendo la notizia “molto, molto buona”. Il messaggio implicito? Nvidia ha trovato il modo di aggirare la trappola che rischiava di costarle 5,5 miliardi di dollari di mancati ricavi.
È quasi ironico che il primo produttore mondiale di chip per l’intelligenza artificiale si sia dovuto inventare un prodotto su misura per un paese che, almeno sulla carta, dovrebbe essere un rivale strategico. Ma questa è la Cina del 2025, e soprattutto questa è la Cina dell’AI. Il mercato interno è un gigantesco laboratorio di algoritmi e modelli linguistici che brucia risorse computazionali con una voracità da startup nella Silicon Valley anni 2010. Secondo le stime di Bank of America, gli investimenti cinesi in AI cresceranno quest’anno del 48 per cento, toccando i 98 miliardi di dollari. È un numero che nessun CEO con un minimo di ambizione può permettersi di ignorare.
Huang ha colto l’occasione per recitare la parte del visionario globale, con un pizzico di quella retorica che fa impazzire i burocrati cinesi. Ha elogiato la supply chain locale definendola un “miracolo”, ha ricordato che “qui si trova il 50 per cento dei ricercatori di AI del mondo” e ha sorriso accanto a Lei Jun di Xiaomi, immortalato vicino a un’auto elettrica come fosse il simbolo di un’alleanza industriale che va oltre i chip. Le immagini hanno fatto il giro dei social cinesi, e non è difficile immaginare quanto sia piaciuto al governo vedere l’uomo più potente della Silicon Valley lodare pubblicamente il primato tecnologico di Pechino.
Per capire quanto sia cruciale questo nuovo capitolo basta guardare chi sta comprando l’H20. ByteDance, Tencent e Alibaba hanno già in pipeline ordini colossali. I dati di Omdia parlano chiaro: solo lo scorso anno Tencent e ByteDance hanno comprato 230 mila chip della serie Hopper, appena dietro Microsoft che ne ha acquistati 485 mila. Questo vuol dire che la Cina non è un semplice cliente, è il cliente. E il fatto che Huang, 62 anni e un curriculum che mescola ingegneria e diplomazia industriale, continui a tornare a Pechino per la terza volta in un anno dice più di mille analisi geopolitiche.
C’è però un dettaglio che sfugge ai più. Il chip H20 è un prodotto di transizione, un compromesso che serve a guadagnare tempo. Gli ingegneri cinesi, spinti da un mix di orgoglio nazionale e miliardi di yuan in ricerca e sviluppo, stanno accelerando nello sviluppo di alternative domestiche. Nvidia lo sa, e lo sa anche Washington. L’autorizzazione a esportare H20 è quindi più una mossa per rallentare la corsa cinese che un vero via libera. Offrire un prodotto meno potente, ma sufficiente per tenere a bada la fame di calcolo degli sviluppatori locali, è un modo elegante per mantenere il controllo del mercato e, allo stesso tempo, raccogliere miliardi di dollari.
Huang lo dice con toni pacati, ma il sottotesto è aggressivo. “È importante che le aziende americane possano competere e servire il mercato qui in Cina”. Tradotto dal linguaggio diplomatico: se gli Stati Uniti continuano a chiudere i rubinetti, qualcun altro li aprirà e Nvidia non sarà certo quella che perderà la festa.
Il fatto che Huang domani parlerà in mandarino all’International Supply Chain Expo è un segnale potente, quasi teatrale. Non è solo un gesto di rispetto, è un messaggio diretto a Pechino e indiretto a Washington: Nvidia è pronta a giocare secondo le regole cinesi, almeno fino a quando questo garantirà accesso a un mercato che, tra qualche anno, potrebbe definire gli standard globali dell’intelligenza artificiale.
In questo scenario, il chip H20 diventa molto più di un pezzo di silicio. È il simbolo della tensione tra due visioni del mondo, un oggetto che condensa il paradosso di un’industria che vive di collaborazione transnazionale e di diffidenza reciproca. Un compromesso tecnico che nasconde una strategia brutale: vendere quanto basta per rimanere indispensabili, ma non abbastanza da alimentare un sorpasso tecnologico irreversibile. Huang sorride, ma dietro quel sorriso c’è la consapevolezza che ogni spedizione di H20 in Cina è un colpo al tempo stesso alla paranoia americana e alla pazienza cinese.