Quando il nazionalismo si fa digitale e l’intelligenza artificiale diventa la nuova geopolitica

Il mondo si è sempre mosso attorno alle materie prime. Petrolio, gas, terre rare. Oggi la materia prima è un’altra e non si trova nei giacimenti, ma nei data center. Si chiama intelligenza artificiale, e il nazionalismo che una volta si nutriva di confini fisici ora diventa una corsa febbrile a chi controlla i modelli, i dati e le infrastrutture computazionali. Il nuovo AI nazionalismo è qui, e non è più un esercizio teorico da conferenze accademiche. È un piano industriale, un’arma diplomatica e, per certi paesi, una vera e propria dichiarazione di sovranità.

La mossa del Regno Unito con OpenAI ne è la conferma più sfacciata. Il governo britannico, attraverso il Department for Science, Innovation and Technology, ha firmato un accordo “volontario” con l’azienda di Sam Altman. Volontario, certo, come quelle strette di mano che nei corridoi del potere valgono più di un trattato. La retorica ufficiale è tutta zucchero: migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, aiutare i cittadini a navigare nei servizi pubblici, supportare le piccole imprese. In realtà, è un messaggio preciso a Washington, Bruxelles e Pechino: Londra vuole la sua fetta di sovranità tecnologica e ha deciso che non può più aspettare i tempi morti della burocrazia europea.

Ironico che per costruire una presunta “AI sovrana”, il Regno Unito debba affidarsi proprio a un’azienda americana. Geopoliticamente è un ossimoro, ma politicamente è un colpo di genio. Perché nel nuovo scacchiere dell’AI, chi si assicura l’accesso preferenziale ai modelli di frontiera è già un passo avanti, e le definizioni di sovranità diventano elastiche come la finanza creativa. “Sovrano è chi decide sull’eccezione”, scriveva Carl Schmitt. Oggi l’eccezione è avere un canale diretto con OpenAI.

C’è poi l’aspetto più interessante, quello che molti fingono di non vedere. Questa partnership non rientra nell’iniziativa ufficiale “OpenAI for countries”, con cui l’azienda sta costruendo relazioni strategiche a livello nazionale (primo caso: Emirati Arabi Uniti). Qui abbiamo un altro format, un esperimento parallelo, che suggerisce un’espansione modulare della strategia globale di OpenAI. Un mosaico di accordi diversi, adattati alle specificità politiche ed economiche dei singoli stati, ma tutti con lo stesso fine: colonizzare l’infrastruttura cognitiva del pianeta prima che lo faccia qualcun altro. Stargate negli Stati Uniti, accordi mirati in Medio Oriente, partnership su misura in Europa. Nessuno dice ad alta voce la parola “monopolio”, ma il concetto è chiaro.

Il Regno Unito, dal canto suo, sta giocando la carta più audace: presentare l’AI non come un mezzo, ma come un fine. “Vogliamo soluzioni sovrane per i nostri problemi più difficili”, dichiarano, citando giustizia, difesa, sicurezza, educazione. Ma a chi ha chiesto davvero il governo se questi settori hanno bisogno di AI? Poco importa. È il paradigma AI-first, dove la logica non è “c’è un problema, vediamo se l’AI può risolverlo”, ma “abbiamo l’AI, troviamo problemi da darle in pasto”. Il rischio? Spostare le priorità politiche sull’altare del tecno-entusiasmo, con la promessa di una rivoluzione che potrebbe non arrivare mai o, peggio, che potrebbe generare effetti collaterali peggiori del male che doveva curare.

C’è un certo fascino cinico in tutto questo. Un governo che urla “sovranità” mentre firma con un attore privato straniero. Un’azienda che si presenta come missionaria della democratizzazione dell’intelligenza artificiale mentre tesse alleanze selettive con stati e governi. Un continente europeo che, nel frattempo, è troppo occupato a scrivere regolamenti per capire che la partita si sta giocando altrove. “Chi controlla i modelli controlla il futuro”, mi ha detto di recente un venture capitalist della Silicon Valley, ridendo come se fosse ovvio. Il bello è che lo è davvero.

La domanda, a questo punto, non è più se l’AI nazionalismo si stia diffondendo. La domanda è quanto tempo ci metteranno gli altri governi a capire che la sovranità del XXI secolo non si misura in carri armati, ma in petaflop e in accesso privilegiato ai modelli di frontiera. Chi rimane indietro dovrà accontentarsi dei resti, dei modelli open source addomesticati e delle infrastrutture di seconda mano. E, a giudicare dal ritmo con cui si stanno muovendo Regno Unito, Stati Uniti e Medio Oriente, quella coda sarà molto affollata.