Un tempo cambiare software aziendale era come tentare di sostituire un motore mentre si è in volo. Costoso, lento, dannatamente rischioso. Ma se gli strumenti di intelligenza artificiale continuano a evolversi con questa velocità e precisione chirurgica, presto passare da Microsoft a Salesforce sarà semplice come cambiare barista. Secondo The Information, i CIO lo stanno già facendo. E non per sport. L’intelligenza artificiale sta tagliando i costi, riducendo i tempi e azzerando la frizione psicologica che per anni ha blindato i fornitori di software enterprise all’interno di relazioni simili a matrimoni medievali. Forzati, lunghi, spesso infelici, ma inevitabili.
Oggi una società del Minnesota sta utilizzando ChatGPT per scrivere il codice che migra i dati da Microsoft Dynamics a un’applicazione di vendita più agile e moderna. L’intero processo? Ridotto del 50% in costi e tempi. Per i competitor di Microsoft questo è il sogno di una vita. Per Microsoft, Palantir, SAP e compagnia bella, potrebbe trasformarsi in un incubo dal sapore di retrocompatibilità interrotta. I colossi dell’enterprise software, da Salesforce a ServiceNow, hanno prosperato in un mondo in cui cambiare software era una follia contabile, un rischio reputazionale e una guerra psicologica interna. Ma ora la migrazione software si fa in pochi clic, magari con un assistente AI che genera lo script, lo testa e lo valida. E per la prima volta, la fedeltà al fornitore non è più una condanna.
In un’epoca in cui i CIO si muovono come hedge fund manager e ogni euro speso in IT viene radiografato, le piattaforme più rigide e costose iniziano a perdere fascino. Le AI generative, e qui entra in scena OpenAI come regista occulto, permettono alle imprese di disincagliarsi dalle architetture legacy senza dover rifare il DNA digitale dell’intera organizzazione. Non si tratta più di decidere se passare a un nuovo sistema, ma di scegliere quando, e soprattutto quale. La barriera d’ingresso si è trasformata in una porta girevole. È la rivoluzione silenziosa della switchability, l’arte perduta del cambiare idea. E qui le big tech dovranno reinventare il proprio valore non sulla base della prigione infrastrutturale, ma della libertà assistita.
Il mercato lo sa. E si muove. Citi ha annunciato di voler espandere la sua copertura di ricerca anche alle private companies, focalizzandosi su AI e tech emergente. Il messaggio è chiaro: la prossima generazione di unicorni non sarà vincolata a software monolitici. Sarà liquida, scalabile, interscambiabile. Ogni processo, ogni funzione, ogni microservizio sarà un modulo staccabile e rimpiazzabile. In questo scenario, ciò che conta non è più il lock-in, ma la flessibilità di integrazione. Gli ETF si adeguano. Tortoise Capital ha appena lanciato un fondo orientato all’infrastruttura AI. Scommette su server, chip, interfacce e orchestratori. Non sulla prigionia tecnologica, ma sulla libertà automatizzata.
Nel frattempo, Nvidia ordina 300 mila chip H20 da Taiwan Semiconductor. Segnale inequivocabile: l’intelligenza artificiale non è più una funzione accessoria del software, è l’infrastruttura stessa. Il layer che permette di costruire, adattare, smontare e ricostruire. Se prima un CRM era un tempio da costruire con anni di consulenza e training, oggi è un servizio plug-and-play. Addestri un’AI sulla base dati, le chiedi di riscrivere il flusso, ottimizzi in real-time. Cambi software come cambi feed.
Il fatto che Cadence abbia accettato di pagare 140 milioni di dollari agli Stati Uniti per aver venduto tecnologia di design chip a una università cinese dice molto su quanto l’infrastruttura tecnologica stia diventando geopolitica. E anche qui l’intelligenza artificiale gioca un doppio ruolo. È lo strumento con cui si costruisce potere e allo stesso tempo la minaccia che destabilizza i centri di controllo tradizionali. Gli strumenti di AI stanno agendo da catalizzatori. Disaggregano. Democratizzano. Rompono i monopoli del software enterprise, trasformando ogni PMI in un cantiere software autonomo, capace di progettare, migrare, automatizzare con precisione chirurgica.
Il mondo del software enterprise si avvia verso una disintermediazione radicale. Gli integratori, i system architect, i fornitori di consulenza con la fattura a sei zeri rischiano di diventare obsoleti. Non c’è più bisogno di fiumi di slide e diagrammi UML per migrare un ERP. Basta un prompt ben costruito. È un mondo in cui gli strumenti contano più delle strutture. In cui le AI non sostituiscono i programmatori, ma li moltiplicano. In cui la conoscenza tacita diventa esplicita, compressa in modelli linguistici che apprendono, adattano, riscrivono.
Il valore si sta spostando. Chi offre strumenti AI per la migrazione, l’integrazione, l’orchestrazione, non solo guadagnerà spazio nel portafoglio IT delle imprese, ma ridisegnerà le regole del gioco. La vendor lock-in economy è sotto assedio. Microsoft, SAP e compagnia dovranno ripensare non solo i modelli commerciali, ma anche il modo in cui misurano il proprio valore. Non più clienti fidelizzati per inerzia, ma utenti che restano per scelta. E ogni giorno quella scelta sarà messa alla prova da una AI più capace, più veloce, più economica.
Nel frattempo, al Bar dei Daini, sorseggiando un espresso, c’è chi scommette su un futuro in cui cambiare software sarà semplice come cambiare password. Un futuro in cui la vera differenza non la faranno i contratti di licenza, ma la capacità di integrarsi con un ecosistema guidato dall’AI. Chi saprà offrire strumenti per orchestrare questa nuova fluidità vincerà. Chi insisterà nel difendere il proprio castello medievale, sarà presto circondato da droni programmati da ChatGPT. E no, non ci sarà bisogno di assedio: basterà un click.