OpenAI ha appena comprato Roi, un’app di finanza personale spinta dall’intelligenza artificiale, e come da tradizione della Silicon Valley l’operazione si riduce a un acqui-hire. Tradotto: non interessa tanto il prodotto quanto le persone, o meglio la persona, visto che solo il CEO Sujith Vishwajith è stato assorbito dall’organizzazione guidata da Sam Altman. I restanti tre membri del team sono rimasti a terra, segno che in questa fase la partita non si gioca più sulla tecnologia in sé, ma sulla capacità di incastonarla dentro la prossima narrativa di OpenAI, quella della personalizzazione radicale. Il 15 ottobre Roi chiuderà i battenti e i clienti perderanno l’ennesima app che prometteva di rendere il trading accessibile e intuitivo. È la storia classica di una startup finanziata da venture capital, 3,6 milioni di dollari raccolti da Spark Capital e Gradient Ventures, che trova una via d’uscita elegante prima di bruciare altro capitale.
L’operazione si inserisce in una sequenza già nota: Context.ai, Crossing Minds, Alex. Un mosaico che Altman sta componendo per trasformare OpenAI in qualcosa di diverso dal semplice fornitore di chatbot e API. La parola d’ordine è personalizzazione, e non a caso Vishwajith ha dichiarato che Roi non voleva solo semplificare la finanza, ma mostrare come l’intero software del futuro dovrà essere cucito addosso all’utente. È un pensiero che fa sorridere chi ha memoria delle infinite promesse dei “personal assistant” degli ultimi vent’anni, da Clippy a Siri, ma che assume un sapore nuovo nel momento in cui un modello come GPT-5 può imparare il tono di voce, le abitudini e persino le idiosincrasie di ciascuno.
L’acquisizione di Roi non è tanto un colpo tecnologico, quanto una scommessa culturale. Perché OpenAI non sta soltanto preparando un DevDay 2025 da grande parata, con oltre 1500 sviluppatori a San Francisco, ma sta disegnando la propria traiettoria come piattaforma che ingloba browser, social network, dispositivi fisici e app di gestione personale. In questo scenario Roi diventa un laboratorio di lezioni utili: come orchestrare dati finanziari complessi, come dare risposte contestuali, come costruire fiducia in un ambito che tocca il portafoglio. Una scuola di errori costosi, certo, ma preziosi per chi vuole estendere l’AI dal puro testo alla vita concreta.
Se guardiamo al contesto competitivo, l’immagine è più feroce di quanto sembri. OpenAI non è più l’unico player della festa: Anthropic e Google stanno spingendo modelli sempre più aggressivi nel coding e nel design, mentre Meta ha creato un gruppo dal nome distopico, Superintelligence Labs, che già mette pressione sul mercato del talento. La conseguenza è evidente: prezzi dei modelli sempre più bassi, margini compressi, un gioco al massacro che costringe OpenAI a correre su due binari. Da un lato mantenere la leadership tecnologica, dall’altro differenziare il brand in un ecosistema di prodotti che vadano oltre la chat.
DevDay 2025, in programma a Fort Mason, rischia di essere il momento di verità. Nel 2023 OpenAI aveva stupito con GPT-4 Turbo e la promessa di un GPT Store, salvo poi vedere Altman licenziato e reincaricato in un weekend degno di Netflix. Nel 2024, l’evento era apparso più sobrio, con novità mirate ma non dirompenti. Quest’anno invece le voci corrono: il browser AI progettato per sfidare Chrome, il dispositivo segreto nato in collaborazione con Jony Ive, forse nuove iterazioni del marketplace di agenti digitali. Nulla di confermato, ovviamente, perché il mistero è la benzina del marketing di Altman. Eppure la direzione è chiara: spostare il baricentro dall’AI come servizio alla AI come infrastruttura di vita quotidiana.
Il paradosso è che mentre OpenAI si muove come un colosso, continua a crescere attraverso micro-acquisizioni da pochi milioni. Roi non è la conquista di una nuova frontiera tecnologica, ma il tassello che racconta meglio la narrativa attuale: se il futuro è fatto di intelligenze artificiali iper-personalizzate, allora servono founder che abbiano già giocato con la complessità del “meccanismo umano” e abbiano pagato il prezzo di provarci in settori spietati come la finanza personale. Non stupisce che OpenAI non porti a casa l’intero team ma solo il suo CEO, perché in certe fasi la testa conta più delle braccia.
Da osservatori esterni possiamo leggere l’acquisizione come un gesto quasi simbolico alla vigilia di DevDay 2025. OpenAI si presenta come leader indiscusso della nuova era, pronto a scendere in campo contro Apple, Google e Meta non più solo sui modelli linguistici ma sul controllo delle piattaforme. È un salto che ricorda le mosse di Microsoft negli anni Novanta, quando da fornitore di software si trasformò in gatekeeper universale. L’ironia della storia è che Microsoft stessa oggi è il principale alleato di OpenAI, ma ogni partnership in questa industria ha la durata di un ciclo di hype.
Sujith Vishwajith, in un post su X, ha scritto che personalizzazione non è solo il futuro della finanza, ma del software intero. La frase suona come uno slogan, ma funziona. Se la finanza è il test più difficile per costruire fiducia e valore attraverso l’AI, allora il resto del software sembra quasi banale. Forse è proprio questo che ha convinto Altman: non il prodotto Roi, destinato a sparire, ma l’esperienza di aver sbattuto contro il muro della realtà finanziaria e averne ricavato una lezione. È il genere di cicatrice che vale di più di un curriculum scintillante.
In questo scenario DevDay 2025 diventa non solo una conferenza, ma un rito di passaggio. Un’occasione per mostrare che OpenAI non è più la startup delle demo spettacolari ma un’impresa con la massa critica per ridefinire l’interazione uomo-macchina. La personalizzazione AI diventa il punto di contatto tra le acquisizioni minori e i grandi progetti in incubazione. Roi, pur chiudendo, continua a vivere come simbolo di questa strategia: trasformare le promesse incompiute del passato in un ecosistema che finalmente può scalare.