Musk non è uno che scappa facilmente, ma è un maestro nel farsi inseguire. Quando Donald Trump, con la finezza diplomatica di un bulldozer in salotto, ha pubblicamente minacciato di “spedire Elon a casa”, il significato geopolitico è stato più profondo di quanto Twitter abbia saputo cogliere tra meme e battute al vetriolo. Il CEO di Tesla, SpaceX, Neuralink e compagnia tech è diventato il protagonista riluttante di una distopia a cielo aperto, in cui il capitalismo delle star collassa sotto il peso delle proprie contraddizioni ideologiche. E dove la Cina appare sempre più come un rifugio pragmatico, se non proprio ideologico, per chi non trova più aria nei corridoi del potere americano.

Nel delirio da campagna elettorale permanente, Trump ha sibilato che senza sussidi statali Musk “dovrebbe chiudere tutto e tornarsene in Sudafrica”. Tradotto per i non iniziati: l’America non è più il paradiso dei disruptor, a meno che non stiano zitti e producano missili per il Pentagono. La cifra da tenere a mente è 38 miliardi di dollari: il totale di contratti, sussidi e prestiti pubblici ricevuti dall’impero Musk secondo il Washington Post. Una montagna di soldi che rende la sua eventuale fuga non solo una questione di business, ma un tradimento ideologico. Il bambino prodigio del neoliberismo americano minaccia di trasferirsi nel paese che, fino a ieri, era il nemico giurato dell’innovazione “free market”.

Ma è proprio qui che il teatro si fa interessante. Perché se Trump sputa fuoco su X (che un tempo si chiamava Twitter), Musk gioca su tre scacchiere diverse: business, narrativa mediatica e pressione geopolitica. Se l’ex presidente crede che basti una minaccia di deportazione per piegare il tycoon, allora non ha capito come funziona il nuovo ordine globale della tecnologia. E infatti, puntuale come uno tsunami calcolato al millisecondo, arrivano analisi e speculazioni: Musk potrebbe spostare parte del suo impero industriale in Cina. Un’eresia? Un’apertura strategica? Una provocazione? La risposta è sì a tutte e tre.

Per capirne la portata, basta seguire la catena del valore. Tesla ha già una fabbrica a Shanghai, cuore pulsante della nuova era automobilistica cinese. E benché la quota di mercato sia scesa – dal 16% al 6% nel giro di tre anni – il brand Musk ha ancora peso. La Cina è ormai più avanti degli USA nei veicoli elettrici, come spiega Zhou Yu di Vassar College, ma accogliere un nome globale come Elon serve sempre a consolidare il racconto interno: la Cina non copia, guida. E se può ospitare un magnate occidentale messo all’angolo dalla sua stessa patria, tanto meglio.

Il problema, ovviamente, è che non si sposta una galassia come quella di Musk con un clic su Google Maps. SpaceX, con i suoi satelliti e i contratti militari USA, è intrasferibile. Se anche volesse, sarebbe considerato un rischio per la sicurezza nazionale. Neuralink, invece, si muove in un territorio più opaco: la Cina potrebbe diventare il laboratorio ideale per sperimentazioni che l’FDA guarda ancora con il sopracciglio alzato. Lo stesso vale per la Boring Company: l’idea dell’Hyperloop può non funzionare in California, ma in una Shenzhen post-moderna può diventare la vetrina di un futuro che vuole sembrare più veloce della democrazia.

Il paradosso? Musk, simbolo del libertarismo individualista, si ritrova a flirtare con un regime autoritario che non tollera dissenso, né tweet fuori posto. Ma come sottolinea Denis Simon del Quincy Institute, a Pechino non serve la lealtà di Musk. Basta il suo esilio mediatico. Ogni volta che viene ostacolato in patria, diventa un testimonial involontario della narrativa cinese: qui l’innovazione non viene sabotata dal Congresso o dal primo populista di turno. Qui, si costruisce.

La Cina non deve accoglierlo con tappeti rossi. Le basta osservarlo mentre combatte i mulini a vento di una democrazia stanca, per proiettare al mondo l’immagine di una modernità tecnocratica, stabile e senza isterie ideologiche. E se anche Musk non trasferisse mai nulla di strategico a Pechino, l’eco della possibilità – lo spettro della fuga – vale più di ogni trattato firmato. È il soft power ribaltato: non è la Cina che viene da te, sei tu che, deluso dall’Occidente, le concedi visibilità globale.

Il problema, naturalmente, è che anche il dragone ha il suo tallone d’Achille: Musk è imprevedibile, iconoclasta, e ha un rapporto complicato con qualsiasi forma di controllo. Le autorità cinesi potrebbero tollerare i suoi capricci solo finché convergono con gli interessi nazionali. Poi, come ogni altro attore economico, potrebbe essere silenziato, inglobato o neutralizzato. Una variabile troppo instabile per un sistema che punta sulla prevedibilità del comando.

Eppure, in questo scenario degno di un romanzo cyberpunk, c’è una verità più profonda. La Silicon Valley ha perso l’innocenza, e con essa anche il suo potere assoluto di seduzione. I suoi geni ribelli non sono più accolti come salvatori, ma trattati come anomalie pericolose. E mentre l’America si chiude nella logica binaria del patriottismo e delle guerre culturali, il resto del mondo osserva. Musk, volente o nolente, è diventato il protagonista di una crisi sistemica: la fine del sogno tecnologico come frontiera libera e la sua sostituzione con un nuovo realismo geopolitico.

La domanda, dunque, non è se Musk si trasferirà in Cina. È se il mondo che lo ha creato – e osannato – è ancora in grado di contenerlo. Perché se un imprenditore può essere deportato per motivi politici, se l’innovazione può essere soffocata da battaglie di consenso, allora forse non è Elon ad aver perso la bussola. È l’Occidente che ha dimenticato come si inventa il futuro. E la Cina, per quanto autoritaria, lo sa raccontare meglio.

Nella farsa tragica di un’epoca dominata da algoritmi e narcisismo di stato, Musk è il primo CEO transnazionale senza patria fissa. Non serve essere d’accordo con lui per capirne l’importanza: rappresenta il momento in cui il capitale e il potere diventano definitivamente apolidi, sfuggendo ai confini della politica tradizionale. E se il prossimo passo sarà costruire razzi in Mongolia interna o trapianti neurali a Wuhan, non sarà per amore del Partito. Sarà per assenza di alternative.

Nel frattempo, Trump può continuare a twittare minacce e sarcasmi. Ma la realtà è che il suo ex alleato più brillante è già altrove. Non fisicamente, ma narrativamente. E in un mondo dove la percezione è tutto, è lì che si gioca la vera partita del potere.