Non capita tutti i giorni che un gigante del chip come Nvidia si ritrovi al centro di un terremoto di fiducia da parte di uno dei mercati più ambiti al mondo. La storia dell’H20, il processore di intelligenza artificiale “su misura” per la Cina, è l’ennesimo esempio di come la tecnologia oggi sia una partita geopolitica dove il sospetto domina più della logica. Nvidia, dopo aver ottenuto il via libera da Washington per esportare l’H20 in Cina pagando il 15 per cento dei ricavi allo Stato americano, si trova accusata dai media statali cinesi di aver inserito “back door” di sorveglianza. Il tutto mentre il colosso rassicura che non ci sono “kill switch” o spyware nei suoi chip, a dimostrazione che la fiducia in ambito tecnologico è ormai un bene più fragile del silicio stesso.

Il paradosso è bello e grosso. Da un lato, Nvidia accetta di versare una percentuale sostanziosa delle sue vendite alla Casa Bianca, come pegno di un accordo fragile e geopoliticamente carico. Dall’altro, Pechino risponde con una campagna di demonizzazione che mette sotto accusa proprio il chip che dovrebbe alimentare il futuro dell’AI cinese. Il commento su Yuyuan Tantian di China Central Television è impietoso: “Un chip né avanzato, né sicuro, né rispettoso dell’ambiente, è semplicemente un prodotto da rifiutare”. Ironia della sorte, la strategia di Nvidia si ritorce contro, come un moderno gioco di specchi in cui ogni mossa è monitorata da occhi governativi. Una curiosità storica emerge dal passato, quando nel 1992 si parlava già di tentativi americani di inserire back door nei chip per motivi di sicurezza nazionale. Oggi, quella paranoia diventa mainstream, soprattutto nel contesto della guerra commerciale e tecnologica Usa-Cina.

Il sospetto verso l’H20 non è solo un attacco politico, ma ha una sua narrazione interna alla strategia industriale cinese. La chiamata in causa della Cyberspace Administration of China (CAC) e l’articolo su People’s Daily sono segnali chiari di come Pechino voglia lanciare un messaggio ai propri cittadini e alle aziende: la sovranità tecnologica non si compra all’estero, soprattutto se viene con il marchio “made in USA” e una licenza che implica royalties. La pressione per adottare chip locali, come quelli di Huawei, è una sfida diretta alla supremazia di Nvidia, in un mercato dove il controllo della catena del valore tecnologico è diventato un’arma politica. Il chip H20, nato per aggirare le restrizioni, si ritrova al centro di un circolo vizioso di diffidenza che mette in discussione il concetto stesso di sicurezza digitale.

Da un punto di vista tecnico, la questione non è affatto banale. La possibilità che un chip possa essere controllato da remoto tramite exploit hardware o software suona come uno spettro inquietante in un’epoca dominata dall’intelligenza artificiale. Il fatto che Nvidia abbia sentito la necessità di smentire con forza in un blog ufficiale la presenza di back door indica quanto la pressione mediatica sia alta e quanto il rischio reputazionale sia reale. Questa situazione mette in evidenza un problema strutturale del settore chip: la fiducia nella catena di fornitura e la trasparenza tecnica diventano fondamentali quanto le prestazioni hardware. Il cliente, questa volta, è un’intera nazione e non più un singolo consumatore.

Il tema della sicurezza nei chip è un nodo cruciale anche perché tocca questioni di politica industriale e di sicurezza nazionale. Quando il governo Usa chiede una quota del 15 per cento sui ricavi delle vendite di chip in Cina, si tratta non solo di una tassa, ma di un meccanismo di controllo economico e strategico che alimenta i sospetti. Se a questo si aggiunge la percezione, amplificata dai media statali, che l’H20 sia una porta aperta per la sorveglianza americana, Nvidia rischia di diventare il simbolo di una nuova forma di “colonialismo tecnologico”. La tecnologia, così come la musica, è davvero libera o è solo una nuova forma di dominio mascherato da innovazione?

In tutto questo, l’economia cinese mostra segnali di prudenza e strategia. La cancellazione del report di ICwise, la società di ricerca sui semiconduttori, indica quanto delicato sia il tema e quanto Pechino voglia controllare anche la narrazione tecnica oltre che politica. L’idea che la dipendenza da un singolo chip sia un rischio da evitare non è solo un consiglio prudenziale, ma una direttiva di politica industriale. Il mercato cinese, anche se tentato dall’H20 per le sue prestazioni avanzate, si sta lentamente orientando verso l’autonomia, cercando di sostituire il “made in USA” con il “made in China” in un settore che ha ormai un peso strategico enorme.

Il fenomeno Nvidia in Cina è un caso paradigmatico del nuovo equilibrio fragile della tecnologia globale. In un mondo dove i chip non sono solo componenti elettronici ma simboli di potere e controllo, la fiducia si gioca su piani multipli. Non basta più l’innovazione o la qualità tecnica, occorre una narrativa di sicurezza, trasparenza e sovranità che nessun produttore straniero può offrire completamente. Il sospetto che circonda l’H20 è una cartina di tornasole delle tensioni tra due superpotenze tecnologiche, una sfida che va ben oltre il semplice mercato e si insinua nel cuore della geopolitica digitale.

Nel frattempo, Nvidia prova a mantenere il suo business in Cina, consapevole che perdere quel 13 per cento di fatturato è un lusso che un colosso tecnologico non può permettersi. Ma la domanda resta: quanto può sopravvivere una relazione commerciale che si basa più sulla diffidenza reciproca che sulla fiducia? In un’epoca in cui anche i chip si trasformano in strumenti di potere, la sicurezza diventa una questione di strategia nazionale, e la tecnologia, purtroppo, è sempre più il terreno di una guerra fredda digitale senza esclusione di colpi.