Il paradosso è servito. Da una parte il Parlamento italiano che discute con toni solenni un disegno di legge sull’intelligenza artificiale, con la tipica liturgia normativa che somiglia più a un esercizio accademico che a una strategia industriale. Dall’altra parte il Regno Unito che, senza troppe cerimonie, annuncia con NVIDIA e i suoi partner la più massiccia operazione di rollout infrastrutturale AI della sua storia: fino a 120.000 GPU Blackwell Ultra, 11 miliardi di sterline in data center, supercomputer in arrivo e persino un progetto battezzato Stargate UK. Non è un dettaglio, è la fotografia plastica di come due paesi affrontano la cosiddetta AI industrial revolution. Da un lato la politica che si concentra su cornici etiche, dall’altro il capitalismo anglosassone che usa GPU come mattoni per costruire la sovranità digitale.

Chi guarda con occhio cinico direbbe che non c’è partita. Il Regno Unito ha deciso di usare il concetto di sovranità AI come nuova bandiera geopolitica, giocando la carta della velocità. NVIDIA, Microsoft, CoreWeave e Nscale hanno già un piano fino al 2026 per costruire fabbriche di intelligenza artificiale capaci di ospitare modelli di OpenAI e altri attori globali. Non stiamo parlando di slide in PowerPoint, ma di hardware fisico, rack, raffreddamento, terawatt consumati e GPU che diventano l’equivalente del petrolio del ventunesimo secolo. Jensen Huang, CEO di NVIDIA, lo ha detto chiaramente: “Siamo al big bang dell’intelligenza” e il Regno Unito ha l’ecosistema Goldilocks per prosperare. Un’affermazione che sembra scritta da uno sceneggiatore di Netflix, ma che ha il pregio della concretezza.

A Londra non si limitano a discorsi. Parlano di Stargate UK, il progetto che vedrà Nscale e OpenAI costruire l’infrastruttura per ospitare GPT-5 e i futuri modelli. Tradotto: se l’Italia cerca ancora di capire come regolare un algoritmo, nel 2026 il Regno Unito avrà la sua porta d’accesso al multiverso dell’intelligenza artificiale già funzionante. L’immagine è volutamente evocativa, perché Stargate UK è un nome che non lascia spazio a interpretazioni: non si tratta di un semplice data center, ma della pretesa di costruire un passaggio dimensionale tra industria, ricerca e nuova economia cognitiva.

Il contesto geopolitico rende la vicenda ancora più interessante. Mentre la Commissione Europea predica cautela, il Regno Unito si muove come un’entità post-Brexit che ha deciso di usare la tecnologia come leva di soft power. Non è un caso che la retorica politica di Keir Starmer, il nuovo premier, parli esplicitamente di rendere il Regno Unito “destinazione di scelta” per l’AI. Non di etica, non di rischi, non di moratorie. Solo di crescita del PIL, posti di lavoro e infrastruttura nazionale. In altre parole: la sovranità digitale diventa sinonimo di capacità industriale, non di regolazione.

Ciò che colpisce è la scala degli investimenti. Oltre agli 11 miliardi per data center NVIDIA-ready, ci sono le partnership con BlackRock per altri 500 milioni destinati a modernizzare le infrastrutture esistenti. C’è Microsoft che annuncia un supercomputer con 24.000 GPU Ultra per i servizi Azure, e CoreWeave che costruisce un data center in Scozia alimentato da energie rinnovabili. Il messaggio è semplice: l’AI industrial revolution non si discute, si implementa.

Sul fronte della ricerca, il Regno Unito non si limita a fare da consumatore. Isambard-AI, il supercomputer di Bristol, è già operativo e viene usato per addestrare modelli linguistici nazionali, sistemi sanitari multimodali e persino modelli per il monitoraggio dell’inquinamento. C’è Oxford che usa AI per controllare l’hardware quantistico, Edimburgo che sviluppa software di correzione errori GPU-accelerato e startup come ORCA Computing che combinano fotonica e deep learning. Tutto questo mentre in Italia si discute se ChatGPT sia uno strumento didattico o una minaccia antropologica.

La retorica del “sovranismo digitale” in salsa britannica è affascinante perché non viene presentata come difensiva, ma come offensiva. Josh Payne, CEO di Nscale, ha parlato di “resilienza nazionale, crescita economica e autonomia strategica”. Non è un linguaggio da convegno accademico, è il lessico di un paese che ha capito che il prossimo secolo sarà governato da chi controlla le catene di approvvigionamento di calcolo. E mentre l’Europa continentale si perde in dibattiti sulla privacy, Londra sigla accordi transatlantici per allineare AI e quantum computing.

C’è anche un sottotesto ironico che non si può ignorare. La stessa inaugurazione delle AI factories è stata celebrata durante la visita di Donald Trump, oggi nuovamente presidente degli Stati Uniti. Una scelta simbolica che fa capire come questa partita non sia tecnologica, ma geopolitica. L’AI diventa l’ennesimo terreno di confronto tra Stati Uniti e Cina, e l’Europa gioca il ruolo del commentatore laterale. Il Regno Unito ha deciso di piazzarsi vicino alla fonte, diventando partner preferito degli americani.

Chi osserva tutto questo da Roma dovrebbe porsi qualche domanda. Perché mentre il Regno Unito costruisce 60.000 GPU locali, l’Italia discute un disegno di legge che nessuno nel mondo considera prioritario? Perché la narrativa pubblica si concentra su rischi sociali ed etici, invece che su come attirare gli investimenti necessari per non trasformarsi in un mercato passivo di applicazioni sviluppate altrove? La risposta è banale e amara: la politica italiana non ha mai trattato la tecnologia come infrastruttura critica, ma come tema di contorno, buono per i convegni e i titoli dei giornali.

Eppure il concetto di AI industrial revolution non è metafora. È un’onda d’urto che ridisegnerà interi settori: farmaceutico, finanziario, difesa, media, trasporti. Non a caso NVIDIA cita medicina e drug discovery come aree prioritarie della collaborazione UK-US. Se la bioinformatica britannica userà GPU Blackwell Ultra per progettare farmaci, l’Italia rischia di restare a guardare, importando innovazione a caro prezzo. Lo stesso vale per quantum computing: con Oxford, Edimburgo e OQC già integrati nell’ecosistema CUDA-Q, il Regno Unito si posiziona come hub europeo della nuova era post-Moore.

Non bisogna nemmeno farsi illusioni sulla neutralità di queste scelte. La retorica della sostenibilità e dell’upskilling della forza lavoro, sostenuta da QA e techUK insieme a NVIDIA, è solo la glassa su una torta interamente geopolitica ed economica. Formare sviluppatori e ricercatori va bene, ma l’obiettivo è blindare la catena del valore. Chi possiede i data center, chi possiede le GPU, chi controlla l’accesso al calcolo, possiede il futuro.

Il cinismo è inevitabile: Huang non parla di filosofia, parla di PIL. Starmer non parla di etica, parla di soldi nelle tasche dei cittadini. Altman non parla di rischi esistenziali, ma di crescita della produttività. In questo quadro, l’Italia che approva un DDL su AI appare come un paese che discute del colore delle tende mentre la casa viene ristrutturata dai vicini.

La vera provocazione è che il Regno Unito non sta facendo nulla di misterioso. Sta semplicemente trattando l’AI come le ferrovie nell’Ottocento o l’elettricità nel Novecento. Infrastruttura, non fenomeno sociale. Fabbriche di GPU come centrali elettriche cognitive. Sovranità digitale come capacità di produrre calcolo in casa propria. È un linguaggio industriale che l’Italia sembra aver dimenticato, troppo impegnata a scrivere preamboli normativi per rassicurare se stessa.

Se il lettore ha ancora dubbi, basti un dato: entro il 2026, solo Nscale avrà dispiegato 300.000 GPU Grace Blackwell nel mondo, di cui 60.000 nel Regno Unito. Per capirci, sono abbastanza da alimentare decine di OpenAI. E mentre il governo britannico sbandiera un piano industriale, quello italiano si accontenta di dire che “serve un approccio equilibrato”. Equilibrato verso cosa? Verso l’irrilevanza.