La mano invisibile di Adam Smith, quella che per decenni ha dominato il mito del libero mercato americano, sembra aver deciso di uscire dall’ombra. Non più metafora ma appendice concreta di Washington che entra nel capitale di Intel, valuta partecipazioni in Lithium Americas e si riscopre improvvisamente paladina della politica industriale. Gli Stati Uniti, per anni maestri di deregulation e predicatori di concorrenza pura, oggi copiano maldestramente il playbook di Pechino. E lo fanno con la goffaggine di chi non ha memoria storica di come si costruisce un apparato industriale nazionale.

Gli analisti non hanno dubbi. La nuova politica industriale USA nasce dalla paura, non dalla visione. La paura che la catena di approvvigionamento globale imploda sotto i colpi della competizione con la Cina. La paura che le tecnologie critiche, dai semiconduttori ai minerali strategici, diventino ostaggi geopolitici. Brian Wong dell’Università di Hong Kong lo dice senza fronzoli: Washington sta tentando di copiare Pechino, ma senza avere il DNA di un Paese abituato a interventi di lungo periodo.

Certo, basta guardare le cifre per capire che qualcosa è cambiato. Otto virgola nove miliardi per Intel, con il Dipartimento della Difesa che diventa azionista pesante. Quattrocento milioni in MP Materials, e non in forma di grant ma di azioni convertibili, con lo Stato che sale in cima all’azionariato. Perfino Lithium Americas, con il suo Thacker Pass in Nevada, potrebbe vedere il governo statunitense come socio di minoranza, fino al 10 per cento. Qui non parliamo di sussidi velati o di incentivi fiscali: parliamo di equity, la parola più capitalista di tutte trasformata in strumento di politica industriale.

Il paradosso è che Washington si trova a imitare la strategia cinese proprio nel settore dove Pechino è più forte, quello delle terre rare. Materie prime essenziali per magneti, batterie e tecnologie avanzate, ma con margini ridicoli per chi opera solo in estrazione e raffinazione. È stato lo Stato cinese a decidere di finanziare le tecnologie downstream, integrando miniere, chimica e manifattura. Il risultato è noto: una quasi-monopolio sulla catena globale, con l’Occidente che si limita a guardare. Negli Stati Uniti, invece, la tradizione di politica industriale si è interrotta con la corsa allo spazio e non è mai stata realmente sostituita da qualcosa di coerente.

Rajiv Biswas lo sintetizza con crudele chiarezza: le forze di mercato non bastano a garantire capacità domestica per difesa, elettronica e semiconduttori. Tradotto: senza intervento diretto, la Silicon Valley continuerebbe a vivere di supply chain asiatiche, vulnerabili e fragili. Ma davvero il Congresso americano, popolato da lobbisti e da cicli elettorali di due anni, può competere con una burocrazia cinese che da vent’anni si esercita a distribuire fondi con criteri di performance? L’idea che l’America possa improvvisarsi pianificatore centrale suona quasi comica.

La retorica, naturalmente, è diversa. Trump ha già gridato vittoria sui social, promettendo più accordi simili, più posti di lavoro, più “deals all day long”. È l’America del reality show, dove un investimento miliardario diventa uno slogan elettorale. Peccato che la politica industriale non si misuri in annunci ma in continuità. Se la prossima amministrazione decide di staccare la spina, Intel tornerà a guardare a Taiwan per le sue supply chain e Lithium Americas diventerà l’ennesima promessa incompiuta.

La verità è che la politica industriale USA sta vivendo un esperimento fragile, con radici deboli e obiettivi ambiziosi. In gioco non ci sono solo chip e batterie, ma l’intero equilibrio della catena di approvvigionamento globale. Washington vorrebbe sicurezza, autonomia e controllo, ma rischia di ottenere frammentazione, inefficienza e duplicazione di costi. Nel frattempo, Pechino osserva con una certa ironia: il maestro del libero mercato costretto a studiare, con lentezza e approssimazione, le regole del suo stesso rivale.

Il futuro dipenderà dalla capacità degli Stati Uniti di costruire un modello che non sia né pura imitazione della Cina né nostalgica riproposizione della Guerra Fredda. Servono visione, governance e una cultura che oggi mancano. Senza, la mano visibile dello Stato rischia di trasformarsi in un guanto ingombrante che soffoca l’innovazione invece di proteggerla. Forse la lezione più amara è che per decenni abbiamo creduto nella magia del mercato globale, salvo scoprire che le regole del gioco, in realtà, le scrive chi controlla le miniere e i chip. Chi ha i magneti, detta la musica.