L’intelligenza artificiale non è più un gioco da laboratorio. I numeri del 2025 ci raccontano una storia semplice e brutale: chi parla ancora di “fase sperimentale” o non sa leggere i dati o si ostina a fare finta che nulla sia cambiato. Secondo lo Stanford AI Index 2025, il 78 per cento delle organizzazioni globali ha già usato l’AI in almeno una funzione di business nel 2024, contro il 55 per cento dell’anno precedente. Non si tratta di una curva di adozione, ma di un salto quantico. Non è un grafico che sale dolcemente, è uno scalino verticale che divide il prima dal dopo. Eppure, qualcuno ancora discute se convenga adottare o meno l’intelligenza artificiale, come se fosse un optional da inserire nella prossima auto aziendale.
L’impatto dell’intelligenza artificiale nel settore pubblico è forse ancora più radicale che in quello privato. Le imprese possono scegliere di correre o restare indietro, le amministrazioni pubbliche invece non hanno questa libertà. La loro missione è erogare servizi equi, trasparenti e accessibili a tutti. E quando il cittadino si abitua ad avere assistenza istantanea, traduzioni automatiche di qualità o documenti generati in pochi secondi, non accetterà più la lentezza delle procedure tradizionali. Parlare di efficienza diventa quindi riduttivo: la posta in gioco è la legittimità stessa della pubblica amministrazione nel XXI secolo.
Un dato interessante arriva dall’Europa. Una ricerca di Implement Economics stimava già nel 2025 che l’adozione dell’AI generativa nelle pubbliche amministrazioni dell’UE possa aumentare la produttività di circa il 10 per cento, liberando ogni anno un valore prossimo ai cento miliardi di euro. Non bruscolini, ma un PIL di un Paese medio messo in tasca con qualche algoritmo ben allenato. È la prova che l’AI non è più un gadget sperimentale, ma un asset infrastrutturale al pari delle reti elettriche o delle ferrovie. E come ogni infrastruttura, o si governa bene o si rischia di creare nuove disuguaglianze. Perché sì, la stessa tecnologia che può democratizzare l’accesso ai servizi può anche consolidare il divario tra cittadini digitalizzati e cittadini esclusi.
In Italia l’adozione ha assunto una velocità sorprendente. Il mercato dell’AI ha raggiunto circa 909 milioni di euro nel 2024, crescendo del 58 per cento rispetto al 2023, secondo i dati Anitec-Assinform. E le previsioni parlano chiaro: raddoppio entro il 2027, attorno a 1,8 miliardi. Non è solo entusiasmo privato, ma un segnale concreto che anche il settore pubblico sta metabolizzando la trasformazione. Non è un caso che i progetti di automazione documentale e di servizi al cittadino siano diventati le prime aree di investimento. È qui che l’impatto dell’intelligenza artificiale nel settore pubblico diventa visibile: meno burocrazia inutile, più tempo per il personale amministrativo di fare quello che conta davvero. In un Paese storicamente allergico alla semplificazione, vedere l’AI trasformarsi in un alleato della trasparenza è quasi ironico. Quasi.
Dentro questa dinamica si colloca Babelscape, una delle realtà più attive nel portare soluzioni concrete alla pubblica amministrazione. Il loro progetto Minerva, il primo Large Language Model pre-addestrato in Italia, rappresenta un tentativo strategico di costruire un’AI che non parli soltanto inglese, ma che sappia navigare il mare magnum della legislazione italiana e interpretare le sfumature della nostra cultura amministrativa. Minerva non è un giocattolo da demo, ma una piattaforma concepita per aiutare i legislatori a gestire la complessità normativa e allo stesso tempo valorizzare il patrimonio culturale. Pensare che un modello linguistico possa supportare processi parlamentari o guidare scelte di tutela culturale avrebbe fatto sorridere solo tre anni fa. Oggi è già realtà. E non parliamo di beta, parliamo di un sistema in continuo aggiornamento, capace di restare allineato con le esigenze reali delle istituzioni.
Mentre Minerva lavora sulle parole, ADRIANO lavora sui corpi. No, non nel senso inquietante dei film di fantascienza, ma come incarnazione fisica dell’AI. Presentato nel 2025 alla Camera di Commercio di Roma, ADRIANO è un robot umanoide sviluppato con IIT, Sapienza e qbrobotics. Ha muscoli artificiali, visione computerizzata e capacità conversazionale in italiano e inglese. Non è la mascotte di un centro commerciale, è un esperimento molto serio di embodied AI: l’intelligenza artificiale che prende forma tangibile per migliorare il contatto tra istituzioni e cittadini. Può accogliere turisti, fornire informazioni, dialogare senza generare la frustrazione tipica dei call center. È la prova che fiducia e tecnologia non sono mondi separati. Quando un robot saluta con naturalezza e ti fornisce la risposta giusta, l’utente inizia a percepire la pubblica amministrazione non come un muro di gomma, ma come un sistema accessibile. Un dettaglio che vale oro in termini di reputazione.
Molti osservatori continuano a chiedersi se l’AI sostituirà i lavoratori pubblici. La verità è che li renderà più utili, non meno. Oggi la maggior parte delle energie viene sprecata in compiti a basso valore: copia e incolla, protocolli, ricerca di informazioni in archivi infiniti. Con l’AI generativa nella pubblica amministrazione, tutto questo diventa lavoro della macchina, liberando l’essere umano per decisioni che richiedono empatia, creatività e giudizio. Non si tratta di tagliare posti di lavoro, ma di smettere di pagare salari pubblici per compiti che neppure uno stagista vorrebbe fare. Chi si oppone all’automazione dovrebbe spiegare perché preferisce spendere soldi dei contribuenti in attività che un algoritmo svolge in pochi secondi e senza sbagliare.
C’è chi teme il rischio di bias, di trasparenza, di abusi. È un timore legittimo. Ma è lo stesso timore che accompagnò l’arrivo di Internet nelle scuole, dei computer negli uffici, della PEC nella PA. Ogni innovazione porta rischi. L’alternativa non è bloccare l’AI, ma governarla con regole chiare, sistemi auditabili e strumenti come quelli sviluppati da Babelscape, progettati con un’attenzione maniacale a equità e multilinguismo. Perché un cittadino straniero che riesce ad accedere a un servizio pubblico in italiano, inglese o arabo senza sentirsi discriminato non sta vivendo un semplice “upgrade tecnologico”. Sta sperimentando un atto di inclusione politica. È questo il cuore del dibattito sull’impatto dell’intelligenza artificiale nel settore pubblico: non l’efficienza come feticcio, ma l’equità come leva strategica.
Guardando al 2027, i dati parlano di un’integrazione ancora più radicale. Gli agenti AI autonomi non saranno più laboratorio o ricerca accademica, ma strumenti diffusi che pianificano e agiscono con un input minimo. Prepariamoci a un mondo in cui non sarà più il cittadino a compilare un modulo, ma un agente AI a generarlo automaticamente in base ai dati già disponibili, lasciando al funzionario solo la revisione finale. Chi pensa che sia fantascienza non ha compreso la velocità di questa curva. La stessa curva che ha portato dal 55 al 78 per cento di adozione in un anno.
Il paradosso è che l’AI rende visibile la distanza tra chi governa il cambiamento e chi lo subisce. Le imprese lo hanno capito da tempo, il settore pubblico sta accelerando adesso. Chi resta indietro non sarà solo inefficiente, sarà irrilevante. Perché quando i cittadini imparano che l’intelligenza artificiale può ridurre le barriere burocratiche e migliorare l’accesso ai servizi, non accetteranno più il vecchio status quo. La domanda vera non è se adottare l’AI, ma quanto velocemente riusciremo a integrarla senza perdere i valori che rendono pubblica una pubblica amministrazione.