Il linguaggio è sempre un indizio di potere. Quando si smette di parlare di “difesa” e si inizia a evocare il “Dipartimento della Guerra”, il rebranding non è solo estetico: è un’ammissione che il cuore pulsante dell’innovazione tecnologica americana oggi non è più la Silicon Valley con i suoi unicorni sorridenti, ma l’apparato militare-industriale. Non è un caso che, mentre si discute di shutdown governativo e di contratti congelati in settori come istruzione, sanità o climatizzazione, il rubinetto per la tecnologia bellica rimanga sempre aperto. Gli analisti la chiamano continuità operativa. Io la chiamo immunità politica.

Perché la missione continua, come ha dichiarato senza esitazione Ian Kalin, CEO di TurbineOne, una delle tante startup che prosperano grazie a contratti con l’esercito. È un mantra che non conosce crisi fiscali né oscillazioni di bilancio. La difesa nazionale non chiude mai, nemmeno quando l’amministrazione federale collassa temporaneamente sotto il peso delle sue contraddizioni. Per un investitore di venture capital questo significa una sola cosa: l’unico “mercato sicuro” rimasto negli Stati Uniti non è quello dei consumatori o delle big tech civili, ma quello delle armi intelligenti, dei droni autonomi e dell’intelligenza artificiale bellica.

La retorica politica contribuisce a spianare la strada. Donald Trump ha dichiarato che le città americane potrebbero diventare “campi di addestramento” per contrastare quella che definisce “invasione dall’interno”. La frase è talmente distopica da sembrare scritta da un copywriter della difesa per alimentare il prossimo round di finanziamenti. Ma la domanda che si pone ora è: cosa accadrebbe se le startup della guerra applicassero i loro algoritmi non più a Mosca o Pechino, bensì a Chicago o Detroit? Se i droni di Anduril, i caccia senza pilota di Shield AI o le navi autonome di Saronic venissero impiegati per pattugliare quartieri urbani statunitensi, saremmo di fronte a un ribaltamento storico della distinzione tra guerra esterna e ordine interno.

Gli investitori fingono di non vedere il problema. Per loro conta la traiettoria dei numeri: miliardi di dollari di venture capital sono confluiti in questi anni nella difesa high-tech perché il mercato globale delle guerre fredde e calde prometteva ritorni rapidi e politicamente accettabili. La Cina e la Russia come nemici facili da vendere nelle presentazioni ai board, Taiwan e Ucraina come cause nobili da finanziare. Ma ora le linee di demarcazione si fanno più sfumate. L’ossessione americana per la sicurezza interna trasforma la popolazione in potenziale “altro” da sorvegliare, e in un simile contesto la frontiera della difesa non è più offshore, ma dietro casa.

Non è solo una questione geopolitica, è anche una questione tecnologica. Perché quando si sviluppano reti neurali per identificare “comportamenti sospetti” in un campo di battaglia, la trasposizione nei centri urbani diventa una tentazione irresistibile. La tecnologia della difesa non nasce mai per rimanere confinata sul fronte: prima o poi penetra nel civile. Così come internet, il GPS e i satelliti hanno avuto origine militare, oggi è l’intelligenza artificiale bellica a prepararsi al grande salto nella vita quotidiana, solo che questa volta non stiamo parlando di benefici universali, ma di sistemi di sorveglianza totale e controllo automatizzato.

C’è un aspetto ironico che non sfugge: il venture capital, che amava raccontarsi come forza liberale e progressista, oggi scommette sul business della guerra perché è l’unico con prospettive solide e bilanci garantiti. Il mito della startup che salva il mondo con un’app di benessere o di condivisione sociale è morto, rimpiazzato dalla narrativa del patriottismo armato e della tecnologia che vince conflitti geopolitici. La Silicon Valley ha riscoperto la sua vera anima: quella di contractor del Pentagono, solo con un packaging più cool.

Il paradosso è che questo cambiamento di paradigma potrebbe ridefinire l’intera economia dell’innovazione americana. Se i capitali più ambiti vanno alle aziende che sviluppano algoritmi per i droni militari, che spazio rimane per l’AI applicata alla medicina o all’istruzione? La risposta è brutale: sempre meno. E così le startup civili dovranno adattarsi a un contesto in cui il finanziamento pubblico e privato converge verso la militarizzazione tecnologica. Chi non si piega a questa logica rischia di scomparire.

Il futuro che si profila è quello di una nuova Guerra Fredda interna, con startup e venture capitalist pronti a ridefinire il concetto stesso di sicurezza nazionale. Il Dipartimento della Guerra non è un titolo di giornale, è il nome vero di un ecosistema che non ha più bisogno di nascondersi dietro eufemismi. La vera domanda non è se le tecnologie della difesa arriveranno nelle nostre città, ma quando, e con quale grado di accettazione sociale. Forse il cittadino americano medio non si scandalizzerà nemmeno più di tanto, abituato com’è a vivere dentro un reality show permanente dove la linea che separa la propaganda dalla realtà si assottiglia ogni giorno di più.

Vuoi davvero sapere qual è l’innovazione più disruptive del nostro tempo? Non è l’AI generativa che ti scrive un testo o ti dipinge un quadro. È l’AI bellica che ridefinisce cosa significa vivere in una democrazia armata. Un mercato che non conosce recessioni, perché la guerra, a differenza delle app di fitness, non passa mai di moda.