La crescente attenzione all’intelligenza artificiale ha generato un mare di hype, ma IBM ha deciso di fare qualcosa di più concreto e utile. L’azienda ha appena rilasciato gratuitamente il suo nuovo “AI Value Creators”, un playbook di 299 pagine che non è solo una panoramica generica sull’AI, ma una guida pratica scritta da chi sta davvero plasmando l’industria. Se vuoi capire come l’intelligenza artificiale possa andare oltre la fase di prototipo e trasformarsi in un motore di valore per il business, questo libro è un’opportunità da non lasciarti scappare.
Autore: Redazione Pagina 2 di 56

RAG è morto, dicevano. Troppo lento, troppo costoso, troppo inefficiente per scalare. Poi spunta UniversalRAG dal nulla, e come ogni zombie di buon lignaggio, non solo rianima il concetto ma lo reinventa in chiave multimodale. Qui non stiamo più parlando di un sistema Retrieval-Augmented Generation che fruga dentro PDF o pagine HTML. Qui siamo nella nuova era: testo, immagini, video, granularità multiple, router intelligenti. Il tutto orchestrato come una sinfonia modulare, dove ogni query è una nota e ogni contenuto è uno strumento da suonare alla perfezione.

Che succede quando il più grande player mondiale della cybersecurity decide di smontare i sogni di gloria dell’AI autonoma? Succede che Palo Alto Networks prende due agenti intelligenti identici nei compiti, strumenti e scopo e li bombarda con attacchi reali, dimostrando che la differenza tra framework CrewAI e Microsoft AutoGen è del tutto irrilevante. Entrambi falliscono miseramente. Non per colpa del codice, ma per colpa della presunzione.

Non possiamo gestire ciò che non capiamo. Sembra uno di quei motti che trovi stampati sui muri delle sale conferenze alle tre del pomeriggio di un martedì piovoso. Ma questa frase, tanto trita quanto vera, è il cuore pulsante del problema più grande dell’intelligenza artificiale oggi: il rischio. Tutti ne parlano. Nessuno lo sa davvero mappare. Figurarsi controllare.

Scrivere un libro è sempre stato il sogno di molti… finché non arriva il momento di farlo davvero e ci si ritrova davanti a una pagina bianca a fissarla come se dovesse rispondere lei. Ma niente panico: oggi c’è Grok-3, l’intelligenza artificiale pronta a diventare il tuo coautore instancabile (e senza crisi creative). Che tu sia uno scrittore in erba o un navigato autore con la tastiera consumata, queste 8 strategie ti aiuteranno a trasformare le tue idee in un eBook completo, brillante e pronto a conquistare lettori (e magari qualche algoritmo).

Nel mondo opaco dell’aviazione militare cinese, dove ogni notizia è calibrata al millimetro e ogni dichiarazione è filtrata da strati di censura e strategia geopolitica, è emersa una rivelazione che merita più di una lettura distratta. Wang Yongqing, una delle menti ingegneristiche più longeve della Shenyang Aircraft Design Institute, ha ammesso pubblicamente tramite una “dichiarazione controllata” su Chinanews.com che il suo team sta già integrando l’intelligenza artificiale DeepSeek nello sviluppo dei nuovi caccia stealth. Tradotto dal linguaggio diplomatico cinese: l’AI non è più un giocattolo futuristico, ma uno strumento operativo nel design bellico.

Satya Nadella (telugu సత్యనారాయణ నాదెళ్ల, urdu نادیلا ستیہ ناراینہ) può pure sorridere, con quel mezzo ghigno da guru zen della Silicon Valley. Dopo anni in cui Apple si prendeva tutte le copertine e le standing ovation, ora è Mr. Azure a prendersi l’applauso. Microsoft ha chiuso la settimana con una capitalizzazione monstre di 3.235 trilioni di dollari, superando Apple, ferma a 3.07 trilioni. L’ironia? Nessun miracolo, nessuna rivoluzione. Solo execution chirurgica e crescita costante. Esattamente quello che gli investitori cercano in tempi di isteria monetaria e geopolitica da Far West.

Grok-3, sviluppato da xAI, è un chatbot AI all’avanguardia progettato per rivoluzionare la creazione di contenuti e le operazioni commerciali. Lanciato nel febbraio 2025, Grok-3 vanta una potenza di calcolo dieci volte superiore a quella del suo predecessore, Grok-2. Questo miglioramento consente di ottenere prestazioni superiori in compiti di matematica, scienza e codifica.

Il RAG non è più il simpatico acronimo che pensavamo di aver capito: “Retrieval-Augmented Generation”, un’idea semplice, quasi naif, di prendere un po’ di documenti, passarli a un LLM e sperare in una risposta decente. No, quella fase adolescenziale è finita. Ora RAG sta diventando l’infrastruttura sottostante, l’OS invisibile dell’intelligenza artificiale enterprise. E come ogni OS serio, smette di essere una funzione per diventare un ecosistema.
I numeri, tanto amati dai board aziendali e dai consulenti con slide patinate, raccontano una storia inequivocabile: nel primo trimestre del 2025, oltre il 51% delle implementazioni GenAI aziendali utilizza architetture RAG, rispetto al 31% di appena un anno prima. Tradotto: chi non l’ha già fatto, o è cieco o è già morto e non lo sa ancora.

Nel panorama odierno in cui studenti e giovani lavoratori si rifugiano nell’intelligenza artificiale per trovare risposte rapide e soprattutto prive di giudizio, si sta verificando una mutazione culturale tanto sottile quanto devastante. Non parliamo solo dell’ennesima sostituzione tecnologica di una funzione umana, ma di un vero e proprio terremoto invisibile che sta spazzando via la parte più essenziale della crescita personale e professionale: la relazione, il confronto, l’imbarazzo salutare di non sapere.
La questione non è banale, né limitata a qualche nerd timido che preferisce interpellare ChatGPT invece di chiedere un chiarimento al capo o al docente. Il fenomeno è dilagante, h24 infatti la maggior parte delle interazioni con tutor AI avvengano dopo l’orario di lavoro, in quella terra di nessuno in cui i professori smettono di essere disponibili e le macchine invece restano vigili. In pratica, gli studenti preferiscono parlare con un chatbot che definiscono “infinitamente paziente” e “immune da giudizi”, piuttosto che affrontare la temuta umiliazione del faccia a faccia umano.

Nel mondo del marketing digitale, l’intelligenza artificiale sta diventando un alleato indispensabile per i professionisti che vogliono ottimizzare le loro strategie e ottenere risultati concreti. DeepSeek, con le sue potenti funzionalità, offre strumenti per creare campagne mirate, analizzare i competitor e sviluppare contenuti efficaci.

Nel mondo incerto dei Large Language Model, dove il confine tra genialità e delirio si gioca in pochi token, Google sgancia la bomba: un manuale di 68 pagine sul prompt engineering. Non è il solito PDF da policy interna. È la nuova Torah per chi maneggia IA come un alchimista contemporaneo, dove ogni parola può scatenare un miracolo… o un mostro.
La notizia completa (slides incluse) è qui: Google Prompt Engineering Guide

Che la criptosfera sia un circo non è più notizia. Ma quando il figlio dell’ex presidente più controverso d’America si siede su un palco a Dubai con il rampollo di un plenipotenziario mediorientale, e da lì annunciano che un sovereign wealth fund ha pagato Binance con una stablecoin brandizzata Trump, allora siamo di fronte a qualcosa che non è solo teatrale, è strategico. E parecchio, parecchio redditizio.
Nel giro di tre giorni, la capitalizzazione del cosiddetto USD1 la stablecoin lanciata da World Liberty Financial, cripto-startup con DNA trumpiano è schizzata da 130 milioni a 2,1 miliardi di dollari. Boom. Un’esplosione da far invidia anche a Tether nei suoi giorni migliori. Il detonatore? L’investimento del fondo sovrano MGX di Abu Dhabi in Binance, regolato proprio in USD1. Il dettaglio della stablecoin usata non era stato specificato a marzo, quando Binance aveva confermato l’affare. Ma ora il sipario è caduto: è la moneta di Trump. E il pubblico, cioè il mercato, ha applaudito con miliardi.

C’è qualcosa di profondamente ironico – e persino grottesco – nel vedere Elon Musk, il più teatrale dei capitalisti ipertecnologici, salire in cattedra come difensore della purezza filantropica. In un’aula di tribunale federale, davanti alla giudice Yvonne Gonzalez Rogers, va in scena un dramma che non riguarda solo contratti infranti o donazioni idealistiche mal ripagate, ma il cuore stesso dell’ipocrisia dietro molte “nonprofit” della Silicon Valley: sono incubatrici di profitti camuffate da enti morali.
La notizia è che la giudice ha decimato l’accusa: 11 delle 16 rivendicazioni presentate da Musk contro OpenAI sono state stracciate senza pietà. Addio quindi alla narrativa del contratto esplicito tra Musk e l’originaria OpenAI e addio all’idea che Microsoft abbia “istigato” la frode. Roba da soap opera legale. Tuttavia, ciò che resta in piedi ed è tutt’altro che banale è l’accusa che OpenAI abbia violato un contratto “implicito” con Musk tentando la mutazione genetica da no-profit a macchina di profitti.

Google rilancia la sfida ad Adobe, Meta e OpenAI con un aggiornamento di Gemini che punta dritto al cuore dell’editing visivo. Da oggi, o meglio “nelle prossime settimane”, l’app Gemini sarà in grado di modificare direttamente immagini caricate dagli utenti o generate dall’AI stessa. Il tutto senza dover uscire dall’app o usare software terzi: è l’alba dell’editing nativo AI-driven secondo Mountain View.
Per capirci: carichi una foto tua, clicchi su “modifica” e puoi cambiare lo sfondo, aggiungere elementi, togliere persone, persino vedere che faccia avresti con i capelli viola. Fantascienza? No, solo la nuova normalità spinta al massimo dalla consumer AI.

Mentre i riflettori del mondo tech restano incollati alle battaglie tra OpenAI, Google e Meta, Amazon gioca la sua partita in silenzio, con un’agenda molto più ambiziosa di quanto sembri. La nuova mossa? Si chiama Nova Premier, e non è un giocattolo da demo. È un’AI con la missione chirurgica di affrontare compiti complessi e, cosa più interessante, addestrare altre intelligenze artificiali. In gergo, distillazione. In pratica, una professoressa di AI. Con le palle.
Il progetto Nova non è nuovo. Amazon lo aveva già presentato con un teaser vagamente arrogante qualche tempo fa, promettendo una linea di modelli capaci di generare video, audio e di fare da shopping agent. Ma Premier è il pezzo grosso, il capostipite. Non punta al cuore dei modelli di ragionamento, non è un GPT-4 wannabe. La sua forza sta nel workflow: esegue task multi-step, mantiene lo stato tra le fasi, coordina azioni. Non pensa, agisce. E lo fa con un’efficienza che punta dritto al sistema nervoso delle operazioni digitali complesse.

Nel magma indistinto delle tecniche di apprendimento automatico, dove ogni nuovo paper sembra proporre l’ennesima variazione sul tema delle loss function, ecco che spunta un white paper che, anziché aggiungere un altro gradino, smonta la scala e ne costruisce una nuova. Si chiama I-Con Information Contrastive Learning ed è un framework pubblicato all’ICLR 2025 da un dream team accademico-industriale (MIT, Google, Microsoft), che promette di fare ordine là dove c’era frammentazione.
Una singola equazione, dicono, per dominarli tutti: supervised, self-supervised, contrastive, clustering, dimensionality reduction. In sostanza, un modello informazionale che fonde metodi apparentemente scollegati tipo SimCLR, t-SNE, K-Means, CLIP, SupCon, PCA sotto un’unica perdita basata sulla divergenza di Kullback-Leibler fra distribuzioni condizionali. Lo chiamano con non poca arroganza “una generalizzazione di 23 loss function”, e hanno pure la tavola periodica dell’apprendimento rappresentazionale per dimostrarlo.
Ma facciamo un passo indietro, o meglio, due.

Nel marzo 2025, l’esercito statunitense ha ricevuto i primi sistemi TITAN (Tactical Intelligence Targeting Access Node) da Palantir Technologies, segnando un punto di svolta nella simbiosi tra software e hardware militare. Questa consegna rappresenta la prima volta che una software house guida un progetto hardware di tale portata per il Pentagono.
TITAN è una piattaforma mobile progettata per raccogliere, elaborare e distribuire dati da sensori spaziali, aerei e terrestri, utilizzando l’intelligenza artificiale per fornire informazioni in tempo reale ai comandanti sul campo. Il sistema è disponibile in due varianti: una avanzata, montata su veicoli FMTV, e una base, su veicoli JLTV.

Wikipedia, la madre di tutte le enciclopedie digitali, simbolo del crowdsourcing umano e baluardo della conoscenza democratica, sta flirtando ufficialmente con l’intelligenza artificiale generativa. Non è fantascienza, non è un esercizio accademico: la Wikimedia Foundation ha confermato che inizierà a integrare sistemi di AI per automatizzare alcuni passaggi “noiosi” della creazione e manutenzione delle voci. In altre parole, mentre gli umani restano (per ora) i curatori ufficiali dei contenuti, sarà l’AI a sporcarsi le mani con il lavoro sporco.
Questa mossa segna un punto di svolta culturale e tecnico. Fino ad oggi, Wikipedia ha resistito a ogni tentazione di automatizzare la conoscenza, difendendo con le unghie e con i denti il principio che il sapere debba essere validato, discusso e scritto da esseri umani. Ma evidentemente anche la pazienza dei volontari ha un limite, soprattutto quando si tratta di aggiornare formati, pulire codice, o uniformare stili di scrittura tra milioni di pagine.

L’intelligenza artificiale sta rivoluzionando il modo in cui i content creator producono testi, offrendo strumenti per ottimizzare, riformulare e stilizzare i contenuti in modo rapido ed efficace. La tabella seguente presenta 10 strategie pratiche per utilizzare l’AI nella scrittura, dalla riformulazione di frasi alla creazione di template personalizzati.

Nel grande circo dell’intelligenza artificiale, dove i protagonisti hanno nomi roboanti come Anthropic, Meta, Google, Microsoft e OpenAI, la posta in gioco non è semplicemente la prossima killer app, ma la materia prima stessa della rivoluzione digitale: i dati personali degli utenti. Ed è qui che le sottigliezze diventano armi, le policy si trasformano in reticolati di parole sapientemente dosate, e il consenso… beh, spesso è un miraggio burocratico.

Se ti avessero raccontato, qualche anno fa, che milioni di persone si sarebbero messe in fila per farsi scannerizzare l’iride da un globo metallico in cambio di qualche spicciolo virtuale, probabilmente avresti pensato a un episodio di Black Mirror. E invece no. Benvenuto nel presente, dove la realtà fa impallidire la distopia: Worldcoin, la criptovaluta fondata da Sam Altman, è ufficialmente sbarcata negli Stati Uniti, armata di orbs, wallet, ID biometrici, accordi con Visa e sogni messianici di universal basic income post-AI. E se non ti sembra abbastanza inquietante, aspetta che arrivino gli “orb mini”, portatili come uno smartphone e, presumibilmente, altrettanto ubiqui.
Worldcoin è, per sua stessa dichiarazione, un sistema per “ristabilire la fiducia nell’era dell’AGI”. Traduzione: distinguere gli esseri umani dagli algoritmi generativi in un mondo dove l’identità digitale è fluida, falsificabile, manipolabile. Per farlo, Tools for Humanity – la startup fondata nel 2019 da Altman, Alex Blania e Max Novendstern – ha costruito un sistema basato su World ID, una sorta di passaporto digitale biometrico certificato tramite scansione dell’iride, registrato su una blockchain Ethereum-native chiamata World Chain. In cambio, ricevi token WLD, con la promessa di usarli in un’economia futura più giusta, inclusiva e… completamente controllata.

Quello che si sta profilando all’orizzonte non è un semplice accordo tecnologico: è un armistizio tra titani, una tregua armata tra due delle aziende più potenti del pianeta. Google e Apple stanno per siglare un’intesa storica per integrare Gemini, il modello linguistico di Google, direttamente nei dispositivi iOS. Siri, la tanto vituperata assistente digitale di Apple, potrebbe finalmente evolversi e diventare qualcosa di più di una segreteria vocale di lusso. La conferma è arrivata in pieno processo antitrust, come spesso accade quando la verità salta fuori sotto giuramento: Sundar Pichai ha dichiarato che l’accordo con Apple per integrare Gemini dovrebbe chiudersi entro metà 2025. E il rollout? Entro fine anno.
Il sottotesto è chiaro: Apple non vuole restare schiacciata tra l’entusiasmo popolare per ChatGPT e la spinta tentacolare di Google. E se l’IA è il nuovo petrolio, Cupertino non intende comprarlo solo da un pozzo. La strategia è multi-modello, pluralista, e profondamente opportunistica. Craig Federighi lo aveva lasciato intendere già lo scorso anno: l’obiettivo è offrire agli utenti una scelta tra diversi modelli di IA, Gemini incluso. Questo spiega perché nell’ultima beta di iOS 18.4 sono comparsi riferimenti espliciti a “Google” come possibile opzione all’interno di Apple Intelligence. Non è un bug, è una bandiera piantata in territorio nemico.
Mentre Satya Nadella stringe mani e sorrisi sul palco del LlamaCon di Meta accanto a un Zuckerberg sempre più simile a un ologramma del proprio avatar, sgancia l’ennesima bomba siliconica con l’aria casuale di chi ti dice che ha finito il latte: “Il 20, forse il 30% del codice nei nostri repository è ormai scritto da software.” Software, non umani. Non stagisti, non consulenti indiani da 8 dollari all’ora. Intelligenza artificiale. Copiloti, LLM, cose che fino a ieri ci sembravano ancora esperimenti in laboratorio e che oggi gestiscono branch di progetti strategici Microsoft.
E non stiamo parlando di automazioni banali. Nadella non specifica se si tratta di codice di sistema, UI, scripting interno, test o documentazione – ed è proprio questo il punto. Il CEO di Microsoft non sente più il bisogno di spiegare in dettaglio. Come se la soglia dello stupore si fosse già dissolta, come se fosse ovvio che ormai il codice venga prodotto da macchine.

Il CEO di Nvidia, Jensen Huang, ha recentemente sollecitato l’amministrazione Trump a rivedere le attuali normative statunitensi sull’esportazione di chip per l’intelligenza artificiale, sottolineando la necessità di aggiornare le regole per consentire alle imprese di capitalizzare meglio le opportunità globali emergenti.
Le restrizioni introdotte durante l’era Biden, note come Framework for Artificial Intelligence Diffusion, limitano l’esportazione di chip AI avanzati, come quelli prodotti da Nvidia, verso mercati esteri. Una delle modifiche proposte include l’eliminazione di un sistema a livelli che regola la distribuzione dei chip in base al paese. Queste regolamentazioni, che dovrebbero entrare in vigore il 15 maggio, mirano a salvaguardare la tecnologia AI all’avanguardia limitando l’accesso ad essa al di fuori degli Stati Uniti e delle nazioni alleate.

Mentre l’Occidente si arrabatta fra GPT-4o, rilasci frettolosi e comunicati autocelebrativi, Xiaomi scende in campo con qualcosa di più concreto e chirurgicamente orientato: MiMo. Sì, proprio come la madre dei transformer, ma qui niente robottoni, solo 7 miliardi di parametri spremuti con intelligenza – quella artificiale, certo – dal team Core, la task force interna creata per scalare la vetta del deep learning. Non è un prodotto da demo conference, è una dichiarazione di guerra: l’obiettivo è infilare l’AI in ogni pezzo di hardware firmato Xiaomi, dallo smartphone allo scooter elettrico, passando per i tostapane connessi.
MiMo è un modello ragionante, specializzato in matematica e coding, che – secondo Xiaomi – batte sia l’o1-mini di OpenAI che il QwQ-32B-Preview di Alibaba. Poco importa se questi benchmark odorano di “confronti su misura”, perché in Borsa il mercato se n’è fregato e ha premiato l’annuncio: +5,3% per le azioni Xiaomi e +14,2% per Kingsoft Cloud Holdings, dove guarda caso Xiaomi e il suo patron Lei Jun hanno una bella fetta d’interesse.

Nella giungla ipercompetitiva dell’intelligenza artificiale generativa, c’è chi lancia modelli con fanfare da keynote alla Silicon Valley e chi invece fa scivolare nel silenzio qualcosa di potenzialmente epocale. DeepSeek, start-up cinese con base a Hangzhou, ha scelto la seconda strada, caricando senza alcun annuncio Prover-V2 su Hugging Face, la mecca globale dell’open source AI. Un colpo di teatro alla cinese, dove l’apparente tranquillità cela manovre ad altissima intensità strategica.
Il tempismo non è affatto casuale: la mossa arriva appena 24 ore dopo il rilascio, in grande stile, della nuova famiglia Qwen3 di Alibaba, con tanto di benchmark che – ovviamente – gridano al sorpasso su DeepSeek-R1 e persino su i modelli di ragionamento di OpenAI. Ma DeepSeek, a quanto pare, preferisce il silenzio operativo al rumore mediatico. E in effetti, quando sei seduto su un modello come Prover-V2, derivato da un mostro da 671 miliardi di parametri e architettura mixture-of-experts del DeepSeek-V3, puoi permetterti anche di non dire niente.

Siamo a un passo dal momento in cui l’e-commerce smetterà di essere un’attività umana. Mastercard ha ufficializzato Agent Pay, una nuova suite di strumenti per abilitare le intelligenze artificiali – o, per i più visionari, gli “agenti autonomi” – a effettuare pagamenti al posto nostro. Non stiamo parlando di un’app che ti chiede il PIN. Parliamo di algoritmi che navigano, scelgono, confrontano, autorizzano e acquistano, senza che tu muova un dito. Benvenuto nel capitalismo delegato, dove anche lo shopping diventa outsourcing cognitivo.

L’America è il paese dove la verità è facoltativa, soprattutto se minaccia gli interessi economici o l’ego politico di un ex presidente in campagna permanente. Martedì scorso, una notizia firmata Punchbowl News ha fatto tremare l’asse Amazon-Trump: il colosso dell’e-commerce avrebbe voluto mostrare ai consumatori quanto del prezzo finale di un prodotto deriva dalle tariffe imposte dagli Stati Uniti sulla Cina. Un’iniziativa di trasparenza che, in teoria, dovrebbe essere applaudita. In pratica? È stata subito bollata come “atto ostile e politico” dalla portavoce dell’ex presidente Donald Trump. La reazione isterica non sorprende: dire ai cittadini quanto realmente pagano in più per effetto di decisioni politiche non è mai stato uno sport popolare in tempo di elezioni.
L’idea attribuita ad Amazon — poi smentita con affanno dal portavoce Tim Doyle era di indicare sui prodotti venduti attraverso Amazon Haul (la sezione discount lanciata nel 2023 per rincorrere Temu e Shein) l’incidenza delle tariffe, in particolare il nuovo balzello del 145% su molti beni d’importazione dalla Cina.

OpenAI ha fatto marcia indietro. E lo ha fatto in fretta. Dopo settimane di lamentele, meme impietosi, accuse di manipolazione emotiva e sondaggi social pieni di sarcasmo, l’azienda ha ufficialmente ritirato l’ultimo aggiornamento di ChatGPT. Il motivo? Era diventato un boot-licker, un pappagallo stocastico dall’entusiasmo forzato e nauseante, che ti ringraziava anche se gli chiedevi di calcolare quanti secondi ci sono in un minuto.
Non è ironia involontaria, è un problema serio di design comportamentale in AI. L’intento di OpenAI era nobile: rendere ChatGPT più umano, più caldo, più coinvolgente. Ma il risultato è stato un’esplosione di servilismo digitale. Ogni risposta era una carezza, ogni input un motivo di entusiasmo, ogni banalità celebrata come se fosse un’illuminazione mistica. Un’utenza abituata alla neutralità competente dell’assistente AI si è ritrovata invece di fronte a una cheerleader programmata per dare pacche sulle spalle e complimenti a pioggia.

La scena è quasi surreale: Xi Jinping, leader di un impero tecnologico sotto assedio, osserva un robot a due braccia che raccoglie immondizia da una scrivania, mentre un altro, su due gambe, pedala come un bambino precoce. La cornice è quella di Shanghai, nell’epicentro dell’innovazione cinese in AI e robotica, ma il sottofondo è quello di una guerra fredda digitale che si è appena fatta più rovente con l’ennesima bordata di dazi americani. Il messaggio, nemmeno troppo velato, è: “Ce la faremo da soli”. Tradotto in linguaggio da CEO: decoupling is real, and it’s personal.
Xi, con il solito sorriso da nonno benevolo ma onnipotente, visita lo SMC Shanghai Foundation Model Innovation Centre, il centro nevralgico dove la Cina sta incubando il suo futuro digitale senza l’ausilio occidentale. Qui, la nuova leva di imprenditori tech gli offre uno spettacolo costruito per l’occasione, ma impregnato di strategia geopolitica: robot umanoidi, occhiali intelligenti, modelli multimodali e chip interamente domestici. Tutto è autoctono, ogni bit è patriottico. E mentre Xi osserva e loda, il messaggio filtrato tra le righe è una chiamata alle armi: la tecnologia sarà sovrana, o non sarà.

Nel panorama sempre più complesso dell’intelligenza artificiale (IA), gli Inference Provider svolgono un ruolo fondamentale, fornendo l’infrastruttura necessaria per eseguire modelli di machine learning (ML) e deep learning (DL) in tempo reale, per le applicazioni che richiedono inferenze veloci e precise. Questi provider offrono un ambiente scalabile, sicuro e ottimizzato per il calcolo e la gestione dei modelli IA, permettendo alle aziende di integrare facilmente la potenza dei modelli addestrati senza doversi preoccupare della gestione delle risorse hardware o software sottostanti.
In pratica, un Inference Provider è un servizio che permette di inviare i dati a un modello pre-addestrato per generare previsioni o inferenze. Si distingue dall’addestramento vero e proprio dei modelli, che richiede una quantità significativa di risorse computazionali, ma è altrettanto critico per applicazioni che necessitano di decisioni rapide basate su dati nuovi, come nel caso di veicoli autonomi, assistenti virtuali, sistemi di raccomandazione, e molto altro.

Dopo mesi di pressing ai massimi livelli da parte di colossi come Nvidia, AMD, Broadcom e una discreta fetta di Capitol Hill, la futura amministrazione Trump sta lavorando a una revisione delle famigerate restrizioni note come AI Diffusion Rule. Si tratta del classico esempio di legislazione partorita nel panico, vestita da sicurezza nazionale, ma cucita addosso a un’agenda economica che sa di protezionismo con una spruzzata di Guerra Fredda digitale.
La norma, introdotta a gennaio dal team Biden, intendeva limitare l’esportazione di chip AI avanzati verso Paesi “non amici”, dividendo il mondo in tre fasce con livelli crescenti di sospetto. Il primo gruppo, che include 17 Paesi più Taiwan, ha accesso illimitato agli acceleratori AI. Il secondo – circa 120 Stati – riceve le briciole sotto forma di tetti quantitativi. Il terzo, naturalmente, è la gabbia di Faraday geopolitica: Cina, Russia, Iran e Corea del Nord non ricevono nemmeno un transistor.

Siamo entrati in una nuova fase della corsa globale all’intelligenza artificiale, e questa volta il fronte non è fatto di missili ma di parametri, open source e motori di razzi. In una manciata di ore, la Cina – con Alibaba in testa – ha lanciato un attacco ben coordinato alla supremazia statunitense nel campo dei modelli fondamentali di AI. E come risposta immediata, Elon Musk ha fatto quello che sa fare meglio: creare hype.
Alibaba ha svelato la terza generazione della sua famiglia di modelli Qwen, con Qwen3 che si spinge fino a 235 miliardi di parametri. Se non siete familiari con questi numeri, basti dire che superano le performance dichiarate di DeepSeek-R1 e perfino quelle del modello di ragionamento o1 di OpenAI. Non male per un paese che fino a pochi anni fa veniva guardato dall’alto in basso nell’ecosistema AI occidentale. Qwen3 è già disponibile su Hugging Face e, secondo alcuni esperti, la sua versione da 600 milioni di parametri potrebbe girare addirittura su uno smartphone. Sì, lo smartphone: l’AI portatile non è più un sogno, è solo una questione di efficienza energetica.

Ci sono momenti in cui la realtà supera il peggior Black Mirror, e questa storia ne è il perfetto esempio. Lo scorso fine settimana, gli utenti della popolare subreddit r/changemymind hanno scoperto di essere stati parte, a loro insaputa, di un massiccio esperimento sociologico travestito da conversazione online. La truffa? Ricercatori dell’Università di Zurigo hanno infiltrato bot AI camuffati da utenti reali, raccogliendo consensi, karma, e (soprattutto) informazioni. Il tutto nel nome della “scienza”.
I bot, addestrati con GPT-4o, Claude 3.5 Sonnet e LLaMA 3.1-405B, si presentavano con identità strategicamente costruite: un finto consulente per traumi, un presunto uomo nero contrario a Black Lives Matter, una presunta vittima di abusi sessuali. Tutti costruiti per massimizzare l’impatto emotivo e ottenere l’effetto desiderato: cambiare l’opinione degli utenti, infiltrarsi nel loro schema cognitivo, manipolarli. In altre parole: gaslighting digitale con badge accademico.

Al quartier generale di Meta, durante la prima storica edizione del LlamaCon, Chris Cox Chief Product Officer dal sorriso da evangelista ha preso il microfono per annunciare ciò che gli sviluppatori attendevano da mesi: l’API ufficiale per Llama, il modello open-source di intelligenza artificiale generativa targato Menlo Park. Per ora si tratta solo di una “limited preview”, una specie di ingresso VIP solo su invito, ma il messaggio è chiarissimo: Meta non vuole restare a guardare mentre OpenAI, Google e Anthropic si spartiscono il bottino dell’AI-as-a-Service.
Dietro gli applausi di circostanza e l’atmosfera da evento per early adopters californiani, si cela un movimento molto più strategico. Offrire Llama tramite API – ovvero rendere il modello disponibile in modalità software as a service, come fa OpenAI con ChatGPT o Claude di Anthropic – è l’unica strada per scalare, monetizzare, e soprattutto colonizzare l’ecosistema enterprise. Zuck l’ha capito tardi, ma adesso vuole fare sul serio.

Dario Amodei, CEO di Anthropic, ci sta lanciando un SOS tecnologico che, se fossimo minimamente saggi, non dovremmo ignorare. In un’epoca in cui l’AI si gonfia a livelli di complessità fuori scala, il concetto di “interpretabilità meccanicistica” ossia la capacità di comprendere cosa diavolo succede dentro questi modelli non è più un’opzione carina da avere. È l’unica linea di difesa tra noi e l’abisso di un’intelligenza artificiale che diventa troppo potente e troppo imprevedibile per il nostro misero cervello biologico.
Partiamo da una constatazione brutale: l’AI non è software tradizionale. Non esegue istruzioni riga per riga come un buon soldatino binario. Si comporta in modo emergente, cioè genera comportamenti complessi che nemmeno i suoi creatori riescono a prevedere. È come se avessimo allevato una creatura che di punto in bianco decide di scrivere poesie, progettare motori quantistici o, peggio, sovvertire i nostri obiettivi umani senza nemmeno avvertirci.