C’era una volta il rally tecnologico. Mercoledì, Meta e Microsoft avevano fatto brillare gli occhi a Wall Street come un bambino davanti alla vetrina di una pasticceria. Giovedì, invece, Apple e Amazon hanno spento la festa come uno zio ubriaco a un matrimonio: le trimestrali sono arrivate puntuali, ma l’effetto è stato un atterraggio morbido, quasi anestetico. La crescita? Un timido +5% per Apple e un più frizzante +9% per Amazon. Numeri dignitosi, ma assolutamente “normali”. Parola maledetta per chi vive e muore di storytelling iper-crescita.
Però qui la contabilità è solo la superficie. La vera frustrazione degli investitori si nasconde dietro una sigla antica e velenosa: dazi. Trump, che non ha ancora smesso di flirtare con le leve protezionistiche come fossero il telecomando del caos globale, ha rimesso sul tavolo le tariffe sull’import dalla Cina. E l’intero comparto tech americano è improvvisamente diventato un castello di vetro.

Tim Cook, l’eterno maestro zen della Silicon Valley, ha cercato di placare gli spiriti. Ha stimato che i nuovi dazi costeranno ad Apple “solo” 900 milioni di dollari nel trimestre in corso. Una cifra tutto sommato gestibile per un’azienda che brucia 50 miliardi in costi di vendita ogni tre mesi. Ma attenzione: Cook ha chiarito che quel numero non è una previsione per il futuro. È un cerotto, non una cura. Intanto, Apple si è data da fare per riorganizzare le supply chain. Gli iPhone per il mercato americano arrivano dall’India, gli iPad dal Vietnam. Una mossa agile, certo, ma che solleva la domanda che tutti fingono di non voler porre: per quanto ancora si potrà evitare il colpo pieno delle tariffe senza smontare il business model pezzo per pezzo?
E mentre gli investitori masticano i dazi, arriva il plot twist legale. Un giudice federale della California ha fatto a brandelli la credibilità etica di Apple, accusandola apertamente di aver ignorato l’ingiunzione nella causa con Epic Games sull’App Store. Si parla di cover-up, si parla di potenziale criminal contempt, si parla addirittura di deferimenti ai procuratori. Il danno economico? Probabilmente qualche centinaio di milioni di dollari. Il danno reputazionale? Immisurabile. La narrazione di Apple come custode della privacy e paladina del fair play digitale prende una scudisciata giudiziaria di quelle che fanno epoca.
Ma il colpo più sottile, quasi invisibile agli occhi dei profani, si sta consumando altrove. A Washington. Dove il DOJ sta letteralmente smontando il monopolio di Google sulla search. Tra le possibili soluzioni sul tavolo, c’è quella di vietare a Google di pagare Apple (e altri produttori) per essere il motore di ricerca predefinito. Quella “tangente legale” vale qualcosa come 20 miliardi di dollari l’anno per Apple. Tradotto: margine puro che sparirebbe da un giorno all’altro. Cook su questo ha elegantemente sorvolato, ma per Cupertino sarebbe come perdere il pozzo di petrolio senza preavviso.
Nel frattempo, Amazon cerca di danzare tra le fiamme. Andy Jassy si presenta con il sorriso californiano di chi ha una tesi pronta per ogni uragano. No, Amazon non è “particolarmente vulnerabile” ai dazi, dice. Perché? Perché ha un ecosistema di due milioni di merchant e qualcuno, da qualche parte, sarà sempre disposto ad assorbire i costi o a tagliare i margini per restare competitivo. Jassy dice che la strategia di importazioni anticipate ha funzionato, almeno per ora. Ma se Trump non fa retromarcia, lo scudo logico di Jassy si trasformerà in carta velina. I piccoli venditori soffriranno, e quando loro iniziano a soffrire, Amazon segue a ruota. È un gigante costruito su un castello di botteghe virtuali.
In nostra Humble Opinioni numeri che Apple e Amazon hanno appena pubblicato contano sempre meno. Il vero futuro si gioca su tre tavoli: la geopolitica doganale, la giurisprudenza antitrust e la lotta interna per restare rilevanti in un mondo dove l’hardware non cresce e il software è sotto assedio normativo. È finita l’età dell’oro. Benvenuti nella Silicon Valley dei margini stretti, delle supply chain acrobatiche e dei CEO in cerca di nuove magie. Ma stavolta senza Steve Jobs o Jeff Bezos a far sparire il coniglio nel cilindro.