Nel teatrino ipocrita della Silicon Valley, dove tutti “vogliono migliorare il mondo” mentre si spartiscono miliardi su server raffreddati a liquido, la vera trama si svolge dietro le quinte. E non è certo una fiaba. OpenAI, la creatura postmoderna partorita da idealismo open-source e fame di profitti, sta cercando di riscrivere le regole del suo patto faustiano con Microsoft. La parola d’ordine? Potere. Quella nascosta? Marginalità. E in mezzo, come sempre, c’è il denaro.

Microsoft è il maggiore investitore esterno e fornitore infrastrutturale di OpenAI. Non un dettaglio. Senza Azure, i modelli GPT starebbero ancora a balbettare in qualche data center hobbistico. Ma oggi, dopo l’ubriacatura da hype e le applicazioni in crescita esponenziale, OpenAI si sente più regina che reggente. E vuole riscrivere il contratto con il suo “protettore”, spostando il focus da revenue share a equity pura. Tradotto: basta dividere i ricavi in modo proporzionale con Redmond, meglio offrire quote societarie. A patto, ovviamente, che la valutazione lieviti come una bolla ben nutrita.

Sotto questa manovra c’è la tipica dinamica della reverse capture: la startup, cresciuta sotto l’ala del colosso, cerca ora di dettare le condizioni, forte del proprio valore strategico. Ma qui non stiamo parlando di una app per prenotare toelettature per cani. Qui si tratta dell’infrastruttura cognitiva del XXI secolo. Di modelli linguistici con capacità quasi generaliste. Di un monopolio cognitivo di fatto, detenuto a metà tra un’azienda pubblica quotata e un’entità privata opaca, ibrida, con un board esoterico e una governance che nemmeno BlackRock nei suoi giorni peggiori.

La parte più gustosa? OpenAI vuole dimezzare la quota di ricavi spettante a Microsoft entro fine decennio. Lo dice nero su bianco nei piani finanziari trapelati agli investitori. Una mossa ardita, quasi arrogante, se si considera che ogni prompt digitato in ChatGPT passa per i chip di Azure. E Microsoft? Sta in silenzio. Non ha ancora firmato nulla. Ma non pensiate che Nadella sia un dilettante. Non c’è traccia di sentimentalismo quando si tratta di cloud e lock-in tecnologico. Se OpenAI vuole la benedizione, dovrà pagare dazio. O trovare qualcun altro disposto a fornire petaflops e latenza a 5 millisecondi.

Intanto gli investitori fremono. Perché dietro questa rinegoziazione c’è un retroscena ovvio ma taciuto: l’IPO. OpenAI deve ripulire la sua struttura, rendere sexy la governance, prevedibile il flusso di cassa. E Microsoft, con il suo ingombrante contratto a revenue share, è un sassolino nella scarpa del venture capital. Tagliarlo, o almeno trasformarlo in equity, significa sbloccare una valorizzazione più lineare. Ma anche più rischiosa. Perché un conto è dividere i profitti. Un altro è sperare che le quote societarie salgano di valore in un mercato che inizia a domandarsi se i chatbot siano davvero l’oro nero dell’epoca post-cloud.

Qui emerge la keyword reale di tutto il teatrino: potere. Non AI, non etica, non impatto sociale. Solo potere. Chi controlla i modelli? Chi determina il prezzo dell’intelligenza artificiale? Chi decide se GPT-5 sarà open, chiuso, o integrato con Excel? L’illusione che la tecnologia sia neutrale cade ogni giorno. L’accordo OpenAI-Microsoft non è solo un contratto. È il cuore pulsante di un monopolio cognitivo. Se OpenAI ottiene il via libera alla ristrutturazione, il messaggio al mercato sarà chiaro: l’AI non è più in mano ai costruttori di infrastrutture. È in mano ai detentori dei modelli.

Ironia da bar: una volta si diceva che il software stava mangiando il mondo. Ora è il modello che si mangia il cloud. Con buona pace di Satya, che intanto si gode i dividendi di Copilot e l’effetto collaterale più delizioso: tutti i competitor di OpenAI passano comunque da Azure. Perfino i rivali. Perfino Anthropic. Più oligopolio di così si muore.

E mentre i regolatori si grattano la testa cercando di capire se questa alleanza sia troppo stretta per la concorrenza, o troppo finta per essere credibile, la Silicon Valley ride sotto i baffi. La ristrutturazione? È solo la prima mossa. Seguirà una IPO, magari una fusione, forse una scissione. Ma il principio resta: chi controlla i modelli, detta il futuro. E oggi, OpenAI vuole passare da vassallo a sovrano.

La posta in gioco non è il denaro. Quello lo stampano già nei data center. La posta in gioco è il controllo dell’intelligenza. O perlomeno della sua parodia statistica ad altissima performance.