Ci risiamo. Quando Apple cerca di “arrivare dopo ma meglio”, finisce per arrivare tardi e rotolando. Il tentativo di trasformare Siri in una creatura “generativa” quella promessa magica chiamata Apple Intelligence si è rivelato, finora, più un esercizio di improvvisazione che un piano strutturato. È Bloomberg, con un corposo report firmato Mark Gurman, a scoperchiare il pentolone fumante del caos in cui Cupertino si è infilata. La parola chiave? ricostruzione. E al centro del cantiere, inevitabilmente, c’è lei: Siri, la diva decaduta delle assistenti vocali.

Siri, da tempo, non se la passa bene. Ridotta a barzelletta da meme, messa all’angolo da Alexa, Google Assistant, e poi totalmente umiliata dalla nuova ondata di chatbot AI, Siri non poteva reggere il confronto. Ma invece di abbatterla e ripartire da zero (come qualunque CTO avrebbe suggerito davanti a una legacy architecture ridotta a Frankenstein), Apple ha provato a fare il lifting tecnologico: attaccare pezzi di AI generativa su una base marcia. Il risultato? Una Siri schizofrenica, incapace di capire il contesto, impacciata, e soprattutto lenta — l’unica cosa che l’utente medio odia più di tutto in un assistente digitale.

Non è stato solo un problema tecnico. È stato un problema culturale. Craig Federighi, lo Jedi della parte software di Apple, era a quanto pare riluttante a investire seriamente sull’AI. Perché Apple non ama investire su cose “senza endpoint chiaro”. Tradotto: se non possiamo misurare il successo in dollari o feature bulletproof, non ci mettiamo i soldi. Peccato che con l’AI, il punto di arrivo non esiste. E mentre OpenAI bruciava GPU Nvidia a colpi di miliardi, Apple aspettava, guardava, valutava. Il risultato? Niente chip, niente data center, niente modelli competitivi.

La vera bomba, però, è che Apple Intelligence non esisteva nemmeno come idea fino a dopo il lancio di ChatGPT. Altro che innovatori segreti che sviluppano nel silenzio. Erano semplicemente fuori dal gioco, convinti che i chatbot non fossero ciò che la gente voleva. Giannandrea, l’ex Google AI wizard chiamato a rifondare l’intelligenza artificiale di Apple, aveva detto chiaramente che “i clienti vogliono disattivare strumenti come ChatGPT”. E quindi si è fatto di tutto per non fare ChatGPT. Poi, ovviamente, si sono resi conto che quella era esattamente la direzione da prendere. Geniale.

Ma arrivare tardi è un conto, arrivare male è peggio. Hanno cercato di far coesistere due Siri: quella vecchia e quella nuova, con il classico effetto cerotto su ferita aperta. Un ingegnere Apple, disperato, ha raccontato a Gurman che è come giocare a whack-a-mole: ne sistemi una e ne saltano fuori tre. Il caos regnava. E mentre il marketing andava in estasi per le “feature AI contestuali”, i team di sviluppo non avevano nulla di funzionante. È la classica sindrome da demo del keynote senza prodotto dietro. Se fosse successo a una startup, l’intero board sarebbe stato silurato.

Oggi, finalmente, il cambio di rotta. Siri sarà riscritta da zero su base LLM, con un’architettura nuova, sviluppata dal team AI di Apple a Zurigo. Addio a patch e workaround. Benvenuta — si spera — una versione “credibilmente conversazionale” capace di sintetizzare informazioni e agire in contesto, come ChatGPT, Perplexity o Claude. Ovviamente, ci vorranno mesi. O forse anni. Nel frattempo, si tenta anche il colpo di genio: sfruttare la massa di dati degli iPhone, mantenendo la privacy on-device, e poi usarne una versione sintetica per allenare i modelli. Sì, suona come una barzelletta di Monty Python in versione AI: non usiamo i dati veri, ma quelli falsi generati dai veri dati, per non violare la privacy. Sembra assurdo, eppure — nel mondo Apple — ha perfettamente senso.

L’altro fronte aperto è il web search. Apple sta flirtando con Perplexity per integrare capacità di ricerca in Safari. Tradotto: se Siri potrà finalmente “andare su internet” e rispondere a domande con fonti multiple e aggiornate, potrebbe diventare utile. Ma è anche un segnale di debolezza: Cupertino, pur di rimettere in piedi Siri, sta esternalizzando parte dell’intelligenza. Inaccettabile, per una compagnia che per anni ha vantato la superiorità in-house.

Intanto, John Giannandrea è stato gentilmente accompagnato alla porta. Niente più Siri, niente robotica, niente prodotto. Apple gli ha disegnato una “via verso la pensione”. Ma non può cacciarlo di colpo: metà dei cervelli AI di Apple li ha portati lui da Google. Se va via, rischiano di scappare anche loro. Così per ora resta, ma “sollevato” dal problema Siri. Letteralmente. Ora è affare di altri.

A chi toccherà, non è ancora chiaro. Ma una cosa è certa: Apple è indietro, molto più di quanto voglia ammettere. E per una compagnia che vive di immagine, questo è inaccettabile. Siri non è solo un assistente vocale. È un simbolo. Se la nuova versione basata su LLM, formata con dati pseudo-realisti, appoggiata a partnership esterne non sarà in grado di competere con gli standard del 2025, Apple rischia di perdere definitivamente la narrazione dell’innovazione.

Oggi, l’unica cosa intelligente di Apple Intelligence… è il nome.
Ma anche quello, probabilmente, l’ha suggerito il marketing.