Eric Schmidt, ex CEO di Google e attuale oracolo tecnologico con l’aria di chi ha già visto il futuro (e ci ha investito), non crede all’hype sull’intelligenza artificiale. No, pensa che l’hype sia troppo poco. Una provocazione? Sì, ma anche una dichiarazione di guerra. Perché quello che Schmidt sta dicendo con la calma glaciale di chi ha già giocato questa partita nel silenzio dei boardroom è che mentre il mondo gioca con i prompt di ChatGPT, dietro le quinte si stanno scrivendo gli algoritmi della dominazione globale.
Tutti concentrati sul linguaggio, sulle email che si scrivono da sole, sulle poesie che sembrano uscite da una scuola di scrittura di Brooklyn. Ma intanto, l’AI sta imparando a pianificare. A strategizzare. A ragionare in avanti e all’indietro come un generale che ha letto troppo von Clausewitz e ha una connessione neurale con l’intero Atlante geopolitico.
La pianificazione è il vero game-changer. Non solo per l’economia che Schmidt stima potrebbe vedere impatti del +30% quotidiano quando gli agenti AI saranno pienamente operativi ma per l’intera struttura del potere globale. Quando una macchina smette di reagire e inizia a prevedere, a simulare esiti, a correggersi in tempo reale, l’intero concetto di controllo umano diventa una nostalgica illusione novecentesca.
Nel frattempo, l’uomo medio quello che si sente early adopter perché ha usato DALL·E per generare un cane con gli occhiali da sole continua a ignorare il fatto che dietro le quinte, agenti come OpenAI o3 e DeepSeek R1 stanno facendo esattamente quello che lui non può: gestire complessità dinamiche, simulare ambienti economici, anticipare crisi prima che si manifestino.
Eric, da par suo, ammette candidamente di usare l’AI per formarsi nel settore spaziale, dove ha investito in una compagnia aerospaziale perché “interessante”. Una frase che fa pensare a un hobby da miliardario, ma che in realtà cela il vero nocciolo: l’AI come strumento di potere cognitivo privato. Quando puoi chiedere a una macchina di scriverti in 15 minuti un white paper più approfondito di quello che uno scienziato riuscirebbe a produrre in un mese, hai creato l’asimmetria informativa definitiva.
La domanda, a questo punto, non è più “quanto è intelligente l’AI”, ma: chi sta usando quella vera?
Tutto questo avviene mentre gli americani si accorgono — con il solito ritardo da impero decadente che la partita è aperta anche sul piano geopolitico. Schmidt non ha dubbi: è una corsa tra USA e Cina. Non un duello commerciale, ma una sottile guerra fredda cognitiva che, secondo lui, potrebbe degenerare in conflitto reale entro cinque anni. Perché quando l’arma non è più la bomba, ma la previsione perfetta, chi controlla l’AI ha un vantaggio offensivo inaccettabile.
Siamo nella fase in cui le sanzioni tecnologiche diventano trincee, i chip diventano proiettili e gli algoritmi diventano agenti strategici. Gli americani tagliano l’accesso ai semiconduttori avanzati, i cinesi rispondono affinando i modelli per girare intorno alla scarsità di calcolo. Il risultato è una corsa alla raffinazione dell’intelligenza, non tanto in termini di brillantezza, ma di efficienza bellica.
E qui, attenzione, Schmidt fa il salto quantico: le vere guerre del futuro, ci dice, si combatteranno con previsioni. Con AI che simulano milioni di scenari geopolitici al secondo, producendo strategie adattive più veloci delle decisioni umane. La minaccia? Che qualcuno in una stanza buia a Washington o a Pechino decida che l’unico modo per vincere sia prevenire. Sì, l’eufemismo preferito di chi sta per premere il bottone.
Nel frattempo, il buon Eric si diverte a demolire con sarcasmo le illusioni da Silicon Valley: no, non scompariranno gli avvocati, semplicemente faranno cause più complesse. No, i politici non saranno sostituiti: semplicemente avranno più strumenti per manipolarti meglio. L’AI non distrugge le strutture di potere, le evolve, le rende più opache, più complesse, più inattaccabili.
E allora, che si fa? Schmidt, come ogni buon miliardario evangelista, ci dà la ricetta: “salite sull’onda, ma fatelo ogni giorno”. Una frase che sembra uscita da un manuale per surfisti da tastiera, ma che in realtà è un ordine: se non usi questa tecnologia, sei fuori. Se non la capisci, sei irrilevante. Se non l’interroghi, sei già stato sostituito.
Ecco il punto cieco di quasi tutti: mentre si dibatte su AGI, su coscienza sintetica, sull’anima delle macchine, la vera AI è già qui. È quella che ottimizza catene di approvvigionamento, simula mercati, scrive policy, predice comportamenti collettivi. Non ha bisogno di essere empatica, solo efficace.
Come ha detto LeCun, oggi i modelli linguistici sembrano intelligenti, ma sono ciechi, smemorati e disorientati. Domani, con architetture come H-JEPA, impareranno a pianificare. E quando lo faranno, la differenza tra chatbot e superpotere sarà irrilevante. Perché l’interfaccia sarà la stessa. Ma dietro, l’AI saprà come fare a vincere.
“Questa è la cosa più importante che accadrà in 500 o forse 1000 anni,” dice Schmidt, e lo dice come chi ha già piazzato tutte le sue fiches sul tavolo.
Il punto non è più cosa farà l’AI. Il punto è: chi controllerà quella che decide.
E no, non sarà un utente con un abbonamento Plus.