
Karen Hao ha scritto un libro che avrebbe potuto cambiare la narrazione sull’intelligenza artificiale. Ma ha scelto di trasformarlo in un trattato ideologico, con inserti da assemblea studentesca e comparazioni storiche da denuncia ONU. “Empire of AI” è un’opera che parte da un presupposto legittimo l’IA è piena di ombre – e poi cerca di trascinare il lettore in una valle di lacrime dove Altman è un despota, l’AGI un miraggio e OpenAI una multinazionale tossica guidata da una setta di ingegneri psicopatici.
Non che Hao manchi di prove. Il suo giornalismo è meticoloso, le fonti abbondanti, le testimonianze interne spesso devastanti. Descrive un Altman sistematicamente menzognero, quasi patologico, capace di mentire anche mentre viene licenziato per aver mentito. Racconta le paure del board, i conflitti interni, le strategie di offuscamento che rendono qualsiasi governance impossibile. Il quadro che emerge è quello di una OpenAI controllata da un manipolatore seriale, che gioca con la fiducia come un illusionista da Las Vegas.
Il problema è che Hao non si ferma lì. Ha un’agenda, e la spinge con la delicatezza di un bulldozer in retromarcia. L’intero concetto di AGI viene liquidato come fantasia, con l’argomento per cui “non sappiamo cos’è l’intelligenza”. Che è come dire che non possiamo parlare di “energia” perché non sappiamo definirla perfettamente. È filosofia spiccia camuffata da scienza sociale. Hao ignora completamente gli impatti concreti e i trend economici, fingendo che l’AGI sia un’allucinazione da maschi bianchi con troppi token GPU.
Cita a sproposito “Power and Progress”, si arrampica su paragoni storici imbarazzanti (sì, il cotone e la schiavitù vengono evocati), e costruisce un’apocalisse morale dove l’unica via di salvezza è bloccare tutto, spegnere i data center e tornare al lavoro umano manuale non sfruttato – cioè qualcosa che non è mai esistito.
Eppure, tra gli eccessi, Hao colpisce duro quando racconta lo sfruttamento concreto dietro l’IA. I moderatori di contenuti in Kenya, traumatizzati dalle immagini tossiche che devono etichettare. I lavoratori invisibili che rendono “magica” la tecnologia di cui ci vantiamo. Qui Hao è potente, precisa, umana. È la parte in cui il libro si salva dal diventare solo un manifesto pseudo-marxista. Quando racconta l’inferno delle catene di montaggio digitali, non ha bisogno di metafore grandiose: i fatti sono già abbastanza allucinanti.
Ma anche in quei momenti, la sua rabbia non è ben calibrata. Il rischio è quello di banalizzare temi serissimi con un tono così assoluto da risultare controproducente. Paragonare il lavoro sottopagato dei data labeler ai campi di cotone del Mississippi è moralmente e storicamente discutibile. È clickbait retorico da saggio universitario con ambizioni editoriali.
Il libro, a livello di forma, è dispersivo. Salta tra la storia personale di Altman e la teoria dell’intelligenza, dalle interviste con ex dipendenti alla filosofia della conoscenza, con una struttura più da feed social che da saggio analitico. A volte sembra scritto da un algoritmo addestrato sul Guardian, su Reddit e su qualche saggio di Chomsky, tutti insieme.
Empire of AI è un libro necessario ma incompleto, potente ma incoerente, giornalisticamente solido ma narrativamente caotico. Offre un controcanto indispensabile al culto di Sam Altman, ma lo fa in modo così militante da diventare prevedibile.
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