C’era una volta Arc, l’adorabile eccesso nerd con l’ambizione di reinventare il browser. Sidebar, cartelle animate, icone fluttuanti come se la navigazione web fosse un esperimento di Bauhaus digitale. Poi qualcuno ha fatto due conti, guardato i numeri di adozione e ha detto: “troppo strano”. Così, The Browser Company è passata da “ridisegnare il web” a Dia, un’app che, almeno all’apparenza, sembra Chrome in giacca e cravatta. Ma sotto il cofano, è una macchina infernale di intelligenza artificiale che ti osserva, ti capisce e, potenzialmente, ti anticipa.

Il CEO Josh Miller la racconta così: “con Arc abbiamo imparato che la gente non ama la novità, ama la familiarità”. Dia, in questo senso, è il cavallo di Troia perfetto: una UX tradizionale, con dentro un’intelligenza artificiale addestrata a diventare il tuo alter ego digitale. Minimalista, elegante, con tab orizzontali, ma armato di un assistente AI che vive in una sidebar a destra, pronto a fare il salto quantico tra la tua cronologia, le tab aperte e i tuoi pensieri.

Immaginate Chrome con un oracolo dentro. Non è uno slogan: è letterale.

Dia ti ascolta. Ma non nel senso spionistico alla Google (anche se il confine è sottile). Parli con il tuo browser, sì, ma lui ha accesso a tutto ciò che vedi e fai: login, siti aperti, cronologia, cookie. E, attraverso un sistema intelligente di “routing dei modelli”, decide con quale motore AI parlare per rispondere meglio a quello che chiedi. Niente più “GPT o Claude?”, “Gemini o Mistral?”: deciderà lui. Dietro ogni interazione, un’intelligenza composita che seleziona il modello giusto, con la skill giusta, nel momento giusto.

È come se Siri avesse studiato al MIT e avesse letto tutti i tuoi messaggi.

Chi ha provato Dia in anteprima — e qui la cosa si fa interessante — ha iniziato ad usarlo per cucinare, studiare, gestire la vita sentimentale, organizzare progetti o scrivere email partendo da un prompt del tipo “scrivimi una risposta passivo-aggressiva ma professionale a questo capo tossico”. Il punto, secondo Miller, è che “le persone ormai iniziano con l’AI prima ancora di aprire Google”. È il nuovo desktop, è la nuova homepage.

Il che, inutile dirlo, fa venire i brividi. Ma anche una certa eccitazione.

Perché Dia non è solo un browser intelligente. È un cervello distribuito che si plasma sulla tua identità digitale. Grazie alla sua capacità di leggere i cookie dei siti su cui sei loggato, non solo può accedere ai contenuti, ma agire per tuo conto. Miller racconta che nei test interni hanno già usato agenti AI per prenotare ristoranti, organizzare meeting, scrivere risposte su Slack. Una vera e propria bot army, orchestrata da una finestra apparentemente innocente.

Il CTO Hursh Agrawal la mette giù più soft: “oggi lo usiamo solo per raccogliere info, ma domani potrebbe agire”. Il problema? Le persone non sono ancora pronte a vedere il proprio browser scrivere, cliccare e decidere in autonomia. Quindi, per ora, hanno rallentato. Ma la direzione è chiara. Sta arrivando una nuova era in cui il browser non sarà uno strumento passivo, ma un co-pilota cognitivo, una protesi della tua mente digitale.

E come ogni buon racconto distopico, arriva anche la questione della privacy.

Dia, ci tengono a specificare, non invia tutto al cloud. I dati restano criptati sul dispositivo e vengono temporaneamente processati solo quando serve. In teoria. Ma il fatto stesso che il browser possa sapere il tuo numero di previdenza sociale, solo perché l’hai digitato una volta mesi fa, mette a nudo una verità inquietante: il browser sa già tutto di te, solo che ora ha deciso di parlartene.

E la parte più ambiziosa? Il sistema di skills. Anziché costruire un’unica AI universale, Dia vuole un’infrastruttura modulare in stile App Store, dove ogni attività — dallo shopping alla scrittura, dallo studio alla progettazione — ha la sua interfaccia, la sua logica, la sua memoria. Il tutto orchestrato da un router cognitivo che ti porta dove devi andare, spesso prima ancora che tu sappia di volerci andare.

Altro che ricerca. Qui si va oltre la domanda. Si entra nel regno del pre-pensiero.

Google lo sa. Per questo Gemini sta colonizzando Chrome, Perplexity sta costruendo il suo browser, e OpenAI lavora in silenzio a una piattaforma simile. Il campo di battaglia, ora, non è più il motore di ricerca. È la finestra del browser stesso. Chi controlla l’input iniziale, l’istinto digitale, controlla l’identità, il desiderio, il comportamento. E sì, anche il portafoglio.

Chi usa Spotify non passa ad Apple Music non per qualità, ma per storico relazionale. Ecco l’analogia chiave: Dia non vuole essere il browser con le funzionalità migliori. Vuole essere quello che ti conosce meglio. Che ti ha visto crescere, per usare un’espressione da spot pubblicitario un po inquietante.

Con Dia, il browser smette di essere un contenitore e diventa un interlocutore. Un’entità semi-coscia che ti osserva, ti consiglia, ti corregge. Inizia come una chat che ti aiuta a trovare un PDF. Finisce come un alleato silenzioso che riscrive il tuo mondo cognitivo un prompt alla volta.

La vera rivoluzione, forse, è che ci sta piacendo.

“You can learn an awful lot about someone just by watching them browse the web.”
Sembra una battuta di Black Mirror, invece è una dichiarazione aziendale.

E così, mentre Google combatte in tribunale per non dover vendere Chrome, The Browser Company ha già creato il clone post-umano di Chrome. Solo che questo sa chi sei, cosa vuoi, e soprattutto chi potresti diventare, se solo lo lasciassi parlare un po di più.