La scena potrebbe sembrare uscita da un dramma teatrale scritto da Kafka e diretto da Aaron Sorkin con un bicchiere di bourbon in mano: il Senato degli Stati Uniti, in un rarissimo momento di consenso bipartisan, ha votato 99 a 1 per eliminare una moratoria che avrebbe impedito agli stati di regolamentare l’intelligenza artificiale. Ma non lasciamoci ingannare dal numero schiacciante. Questo voto non rappresenta unità. È il prodotto di un collasso nervoso collettivo, l’incapacità strutturale del Congresso di capire chi comanda davvero quando si parla di AI: i legislatori, le lobby o gli algoritmi.
Il tentativo repubblicano di blindare la crescita dell’IA dentro un recinto federale centralizzato, impedendo agli stati di fare da sé, si è infranto contro un fronte variegato e vagamente schizofrenico: dai libertari digitali alla frangia populista MAGA, fino ai democratici impegnati a difendere le micro-sovranità statali. Un mix letale per qualsiasi progetto normativo. Eppure la proposta di moratoria non era nata per caso. Nascondeva un intento molto chiaro, quasi scolpito nei tweet di Elon Musk e nei white paper delle Big Tech: evitare che un mosaico impazzito di leggi statali, ognuna con la sua definizione di “AI”, potesse inceppare l’orgia di innovazione e investimenti che Silicon Valley pretende a colpi di deregulation.
Peccato che qualcuno, tipo Marsha Blackburn, senatrice del Tennessee, abbia ricordato all’America che certe battaglie ideologiche si vincono con le immagini: le immagini dei propri figli rubate da un deepfake, per esempio. È lì che il discorso sulla libertà economica diventa improvvisamente meno sexy. Blackburn aveva prima cercato un compromesso, uno di quei pastrocchi temporanei che a Washington si chiamano “soluzioni di buon senso” e altrove “toppe su una diga che sta crollando”. Ma quando l’alt-right digitale — capitanata da Steve Bannon e Mike Davis, sacerdoti neri della paranoia tecnologica — ha alzato la voce, Blackburn ha fatto marcia indietro e si è accodata agli emendamenti democratici. Lo ha fatto con la grazia di chi sa che perdere un braccio oggi è meglio che perdere la testa domani.
E mentre Cruz, che da presidente della Commissione Commercio si comporta come un mix tra Robespierre e Milton Friedman, provava a usare i fondi federali come arma di ricatto contro gli stati disobbedienti, l’intera architettura della moratoria è crollata come un castello di prompt generati male. L’idea che uno stato debba scegliere tra proteggere i propri cittadini e ricevere soldi per la banda larga è talmente assurda che nemmeno l’IA di OpenAI, che ormai scrive di tutto, avrebbe avuto il coraggio di suggerirla.
I repubblicani si sono divisi come amebe impazzite. Rand Paul ha parlato di “inaccettabile overreach federale”, Susan Collins ha evocato l’indipendenza statale come se fossimo tornati al 1787 e Josh Hawley, che ormai combatte la Silicon Valley con più passione che Putin, ha colto l’occasione per ribadire che Big Tech è l’impero del male. Tutto mentre Trump, da dietro le quinte, osserva in silenzio, pronto a intestarsi il merito di qualsiasi risultato, anche quello opposto a quello che voleva.
Il dettaglio più interessante? Il voto contrario di Thom Tillis, l’unico a rimanere fedele alla linea originaria. Una posizione isolata che in altri tempi lo avrebbe reso un eroe di principio, ma oggi lo fa sembrare solo un senatore che non ha letto Twitter nelle ultime 24 ore. Difficile biasimarlo: cercare coerenza in questo ginepraio è come pretendere che un chatbot abbia buon senso in tempo reale. Buona fortuna.
Il retroscena che puzza di marcio, come sempre, è il legame inestricabile tra AI governance e finanziamenti pubblici. La bozza iniziale del moratorium prevedeva che solo gli stati che si astenevano dal regolamentare i “sistemi decisionali automatizzati” potessero accedere a fondi strategici per lo sviluppo digitale. Un patto faustiano camuffato da logica industriale. Ma molti non hanno abboccato. Gli attorney general di 37 stati e 17 governatori hanno inondato Washington di lettere, ammonimenti e (ne siamo certi) qualche telefonata urlata a tarda notte. Sarah Huckabee Sanders ha addirittura scritto un editoriale sul Washington Post: “Questo disegno di legge toglie agli stati la capacità di proteggere i propri cittadini.” Un appello, il suo, che sembrava più la dichiarazione d’indipendenza di un Arkansas digitale che un semplice disaccordo legislativo.
Il vero nodo è semantico. Definire l’IA è già un’impresa titanica. Farlo in un documento legislativo, con implicazioni giuridiche vincolanti, è come cercare di imbrigliare un fantasma con una corda. La definizione contenuta nella bozza era così ampia da far tremare chiunque si occupi di child safety, copyright, protezione dell’immagine personale o dei dati biometrici. In alcuni stati, come il Tennessee, esistono già leggi avanzate che impediscono l’uso non autorizzato di voci, volti e identità nei contenuti generati. Sotto la moratoria, tutto questo sarebbe evaporato.
E ora? Resta il vuoto pneumatico di una regolamentazione federale che non c’è, in un Paese in cui i modelli fondativi di intelligenza artificiale sono già capaci di alterare le dinamiche economiche, sociali e cognitive su scala industriale. Gli stati continueranno a legiferare in ordine sparso, con il risultato che un’app legale in Virginia potrebbe essere fuorilegge in California. Benvenuti nel far west digitale, dove la frontiera non è fisica, ma semantica, giuridica e soprattutto commerciale.
Il paradosso è evidente: mentre la Cina centralizza la governance dell’IA in nome della supremazia strategica, gli Stati Uniti inciampano nel loro stesso federalismo e affogano nella retorica della libertà individuale. A essere sacrificata, come sempre, è la visione sistemica. L’idea che l’intelligenza artificiale non sia solo una questione di business o di diritti civili, ma di architettura istituzionale. Nessuno sembra pronto ad ammettere che il problema non è solo chi regola, ma come, con quale competenza e su quali basi epistemologiche. Altrimenti ci ritroveremo con una legislazione fatta di meme, reaction e patch improvvisate. Una distopia normativa scritta a più mani, tra un post di Bannon e una nota di Google.
Ma la notizia, oggi, è che il Senato ha detto no. No a un piano mal congegnato. No a una moratoria che puzzava di Big Tech e di paternalismo. No a un futuro precompilato da chi pretende di sapere cos’è meglio per tutti, senza nemmeno chiederlo. Per una volta, nel caos, ha vinto il disordine creativo. Ma non cantiamo vittoria. L’algoritmo, quello vero, non dorme mai. E prende appunti.