Winning the Race America’s AI Action Plan
Eccolo, finalmente svelato, il tanto atteso AI Action Plan. Non è un semplice documento programmatico, è un manifesto di potere tecnologico, una dichiarazione di guerra fredda digitale mascherata da politica industriale. Si parla di accelerare l’innovazione, costruire un’infrastruttura AI muscolare e guidare la diplomazia internazionale come se si stesse scrivendo il sequel aggiornato della dottrina Monroe, ma per l’intelligenza artificiale. L’unboxing rivela un piano che non punta solo a “correre più veloce”, ma a riscrivere le regole del gioco, imponendo agli altri di adeguarsi. Chi si aspettava un’operazione burocratica, moderata e noiosa, non ha capito il senso del momento: qui si respira la tensione da corsa agli armamenti digitali.
Il messaggio implicito è brutale: se vuoi i soldi federali per i tuoi progetti AI, meglio che il tuo stato non sia ostile all’innovazione. Tradotto: meno regolamentazioni intrusive, meno retorica politically correct, più pragmatismo. Non sorprende che il piano chieda di rivedere le indagini FTC avviate in epoca “anti-big-tech” e tutti i relativi ordini restrittivi, perché “potrebbero ostacolare l’innovazione AI”. È la versione legale di un “ripuliamo il campo da zavorre ideologiche”, un invito a lasciare spazio libero ai colossi tecnologici. E c’è un dettaglio che farà infuriare molti: il NIST AI Risk Management Framework dovrà essere ripulito da riferimenti a disinformazione, inclusione, diversità e cambiamento climatico. Segnale chiaro che il nuovo paradigma è techno-first, non socio-politico. In altre parole, meno morale, più matematica.
Si entra poi nel cuore pulsante del piano: accesso massiccio al compute per i ricercatori, sandbox regolatori per spingere l’adozione aziendale dell’AI, formazione accelerata per colmare il gap di competenze e, dettaglio che molti sottovalutano, un programma di whole-genome sequencing per la vita nei territori federali. Una mossa da visionari, perché quei dati biologici saranno oro puro per addestrare futuri modelli fondamentali in biologia e bioingegneria. Qui il sottotesto è quasi sinistro: la prossima frontiera dell’AI non sarà solo nel linguaggio o nelle immagini, ma nella manipolazione della vita stessa. Chi controlla i dataset biologici controlla il futuro delle biotecnologie. Ma non aspettatevi che questo venga pubblicizzato troppo: è roba che funziona meglio quando non se ne parla.
Il piano non si limita a costruire, ma anche a difendere. Si parla di rafforzare i controlli sulle esportazioni di chip, sviluppare nuovi vincoli sui sottosistemi per la produzione di semiconduttori e valutare i rischi per la sicurezza nazionale dei frontier AI system in partnership con gli stessi sviluppatori. È un matrimonio tra industria e governo, con il Pentagono che si insinua dietro ogni riga. La narrativa ufficiale parla di “sicurezza nazionale”, ma la logica è evidente: mantenere il vantaggio competitivo globale, soffocare i rivali sul nascere e dettare standard internazionali prima che lo faccia qualcun altro. Il piano è, in sostanza, un manuale di techno-mercantilismo avanzato.
C’è poi il capitolo sociale, inserito più per ragioni di consenso che per reale priorità. Si promette di studiare l’impatto dell’AI sul mercato del lavoro, finanziare il retraining rapido per chi perderà il posto e, con una generosità studiata, formare la forza lavoro che dovrà sostenere l’infrastruttura AI. Ma la sequenza lessicale tradisce le vere priorità: prima viene l’infrastruttura, poi le persone. L’umano è un mezzo, non il fine. C’è perfino un passaggio sul contrasto delle prove deepfake nei tribunali, un riconoscimento implicito che la manipolazione digitale sta per diventare una minaccia sistemica alla giustizia. Ma anche qui l’ironia è inevitabile: chi oggi promette di combattere i deepfake è lo stesso che sta finanziando la corsa a generare modelli sempre più potenti e incontrollabili.
Il tono generale è chiaro. Non si parla più di “responsabilità etica” come mantra da conferenza accademica, si parla di controllo, supremazia e ridistribuzione delle risorse verso chi può davvero spingere la macchina. Non è un piano per tutti, è un piano per vincitori. “Accelerare, costruire, dominare”, questo è il vero slogan non scritto. La diplomazia internazionale? Serve a convincere gli alleati a giocare con le regole americane o a pagarne il prezzo. La sicurezza? È un argine per non concedere vantaggi ai rivali strategici. E ogni frase che parla di cooperazione globale è solo la foglia di fico per un’espansione aggressiva dell’influenza tecnologica.
Chi ha orecchie per intendere avrà già compreso il sottotesto. L’AI Action Plan è il manifesto di una nuova fase del capitalismo algoritmico, dove la politica pubblica non serve più a regolare il mercato, ma a rafforzarlo e a militarizzarlo quando necessario. Il resto è rumore di fondo per placare l’opinione pubblica. L’unica domanda interessante, ora, è chi avrà il coraggio di rispondere con un piano altrettanto spregiudicato. Perché la vera partita non è chi costruirà i modelli più grandi, ma chi controllerà le regole con cui questi modelli governeranno il mondo.