La scena è quasi surreale, degna di un copione satirico. L’uomo che ambisce a tornare alla Casa Bianca ammette candidamente di non aver mai sentito nominare Nvidia, l’azienda più preziosa al mondo per capitalizzazione, la stessa che definisce di fatto la corsa globale all’intelligenza artificiale. Donald Trump racconta, con il suo tipico stile teatrale, di come inizialmente avesse pensato di “spaccarla”, salvo poi scoprire che non è così facile smantellare un monopolio tecnologico che domina un mercato con una quota vicina al 100%. “Who the hell is he? What’s his name?”, ha chiesto Trump al suo consigliere, come se si parlasse di un boss di quartiere e non di Jensen Huang, il fondatore e CEO che ha costruito l’impero dell’AI. L’ingenuità apparente, o forse la finzione strategica, rivela un dato cruciale: la politica americana non è più il motore dell’innovazione, ma un osservatore che rincorre i colossi privati.
Il tono ironico con cui Trump racconta la sua conversione improvvisa alla causa Nvidia è illuminante. “We’ll break him up”, diceva, fino a quando non gli hanno spiegato che anche se Huang gestisse Nvidia in modo disastroso, ci vorrebbero dieci anni per raggiungerlo. Dieci anni, in un settore in cui sei mesi equivalgono a un’era geologica. Questa frase è una condanna implicita a qualsiasi ipotesi di regolamentazione antitrust nel campo dell’AI: è già troppo tardi. La vera partita si gioca sul controllo della catena tecnologica, non sui tribunali. E in questo, Trump ha fiutato la realtà meglio di quanto non vorrebbe ammettere. Ha smesso di pensare da politico e ha ragionato da investitore: perché distruggere un monopolio americano quando puoi usarlo come arma geopolitica?
La vicenda del via libera alla vendita dei chip H20 in Cina è l’altro tassello di un gioco pericoloso. Sotto la sua amministrazione, Trump ha accettato la strategia suggerita dal segretario al Commercio Howard Lutnick, che definisce i chip venduti a Pechino come la “quarta scelta”, con l’obiettivo dichiarato di “drogare” gli sviluppatori cinesi con lo stack tecnologico americano. È una mossa di soft power che rasenta il cinismo. Si vende la tecnologia, ma solo quella abbastanza potente da rendere la Cina dipendente, non abbastanza da farle recuperare il gap. È un’operazione che somiglia più a una trappola commerciale che a una politica industriale. Ma funziona. Nvidia, prima ancora dell’annuncio ufficiale, aveva già raggiunto i 4 trilioni di dollari di capitalizzazione, diventando il simbolo di una nuova era in cui il valore delle aziende tecnologiche supera quello degli stati.
Il paradosso è che, sotto l’amministrazione Biden, il Dipartimento di Giustizia stava valutando un’azione antitrust contro Nvidia, ma l’eventuale ritorno di Trump rende quell’ipotesi ormai remota. L’ex presidente, che si vanta di “capire Jensen”, non ha alcuna intenzione di ostacolare un colosso che può diventare la sua carta più potente nella partita con la Cina. Si potrebbe obiettare che questa è una resa delle istituzioni alla supremazia tecnologica delle Big Tech, ma sarebbe un’illusione pensare il contrario. Nel mondo dell’AI, chi possiede le GPU possiede il futuro, e il futuro non si regola con le leggi, si compra.
Il dettaglio più inquietante non è tanto l’aneddoto da bar raccontato da Trump, ma la normalizzazione di un potere economico che non conosce contropoteri. Nvidia è ormai più che un’azienda: è l’infrastruttura su cui si costruisce la prossima generazione di intelligenze artificiali. “You don’t want to know about it, sir”, ha detto il consigliere a Trump. Forse perché sapere significherebbe ammettere che la politica ha perso il controllo.