Trump non ha mai amato le mezze misure, ma questa volta sembra averne inventata una. L’idea di permettere a Nvidia di vendere alla Cina una versione depotenziata del chip AI Blackwell suona come un cocktail di calcolo politico, fiuto per l’affare e volontà di riscrivere le regole della diplomazia tecnologica. Un compromesso al 30-50 per cento della potenza originale, come se un’auto di lusso venisse consegnata con il limitatore inserito. La motivazione ufficiale? Gestire il rischio tecnologico e la sicurezza nazionale. La realtà, come sempre, è più torbida.

Questo non è un semplice annuncio industriale. È un’operazione chirurgica dentro la supply chain globale dell’intelligenza artificiale, con Washington che improvvisamente si atteggia a broker delle performance dei chip. La Cina vuole capacità computazionale, e non da oggi. Gli Stati Uniti vogliono risorse strategiche e vantaggi commerciali. E nel mezzo c’è Jensen Huang, CEO di Nvidia, costretto a un balletto diplomatico in cui ogni passo costa miliardi e ogni sorriso può valere una licenza di esportazione. Il paradosso è che la Casa Bianca non sta bloccando del tutto l’export, ma lo sta monetizzando.

Il precedente è già stato creato con i chip H20, venduti in versione “addomesticata” e accompagnati da una tassa del 15 per cento sulle entrate, versata direttamente al governo americano. Non un’imposta federale ordinaria, ma una decima geopolitica: se vuoi fare affari con Pechino, paghi il pedaggio a Washington. Per alcuni osservatori è un capolavoro di realpolitik, per altri un pericoloso cedimento che trasforma la sicurezza nazionale in una commodity. Il Congresso è già diviso, tra chi vede in questa mossa un modo per incassare senza compromettere troppo e chi teme l’effetto boomerang di potenziare, anche se parzialmente, l’infrastruttura AI cinese.

È qui che l’ironia diventa tagliente. Un presidente che ha costruito buona parte della sua narrativa sulla minaccia tecnologica della Cina ora si siede al tavolo per discutere quanta potenza di calcolo sia “sicura” vendere all’avversario. La diplomazia del silicio, un tempo dominata da regole ferree e divieti netti, si trasforma in una trattativa da bazar internazionale. Trump lascia intendere che un simile accordo possa aprire la porta ad altre concessioni in cambio di forniture di terre rare, quelle stesse materie prime che oggi rappresentano l’ossigeno della manifattura tecnologica americana.

Dietro le quinte, le implicazioni strategiche sono gigantesche. Un Blackwell ridotto non è un giocattolo: anche con prestazioni limitate, resta un processore in grado di alimentare modelli di AI avanzati, addestrare reti neurali su scala e gestire flussi di dati che per molte economie sono ancora irraggiungibili. La Cina, dal canto suo, non si lascia scoraggiare da limiti tecnici: la storia insegna che le restrizioni occidentali spingono Pechino ad accelerare lo sviluppo di soluzioni domestiche. Così, mentre Nvidia incassa e Washington tassa, la Cina ottiene tempo prezioso per colmare il divario tecnologico.

Il dibattito legale è già acceso. Alcuni costituzionalisti si interrogano sulla legittimità di un governo che impone dazi selettivi su singoli accordi commerciali come se fossero concessioni feudali. Altri temono che la politica del “chip castrato” si riveli inefficace, perché la tecnologia non è facilmente contenibile: bastano partnership parallele, fornitori secondari e reverse engineering per aggirare il vincolo. Eppure, nel breve termine, questo meccanismo crea un’illusione di controllo che fa comodo a entrambe le parti.

La mossa, se vista con cinismo, è un capolavoro di monetizzazione della tensione geopolitica. Trump trasforma un divieto in una rendita, Nvidia ottiene accesso a un mercato colossale, la Cina riceve hardware comunque competitivo e il Tesoro americano si intasca una percentuale senza passare dal Congresso. L’unico vero perdente potrebbe essere il concetto stesso di sicurezza tecnologica, che smette di essere un principio per diventare un asset negoziabile.

È probabile che nelle prossime settimane Huang torni a Washington, con un nuovo dossier sotto il braccio e il sorriso di chi sa che il vero potere non è nei chip, ma nei permessi per venderli. Trump, nel frattempo, potrà raccontare di aver difeso gli interessi americani facendo pagare la Cina per ogni bit di potenza di calcolo esportato. Una narrazione perfetta per un presidente che vede nella politica estera una forma estrema di branding. La differenza è che questa volta il marchio inciso sul prodotto non sarà “Made in USA”, ma “Made for Bargaining”.

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