La povertà educativa è il virus silenzioso che sta divorando l’Italia dall’interno, un cancro che non fa rumore ma che ha già compromesso il metabolismo del Paese. Non è un concetto astratto, è un numero che non lascia spazio a interpretazioni: oltre 1,3 milioni di minori vivono in povertà assoluta e il tasso di NEET raggiunge un vergognoso 15,2%, tra i più alti d’Europa. Qualsiasi economista onesto ammetterebbe che questa non è solo una questione di diritti, ma un gigantesco problema di produttività. Lo Studio Strategico presentato a Cernobbio calcola fino a 48 miliardi di Pil aggiuntivo se solo fossimo in grado di colmare questo divario. Il che tradotto significa che stiamo lasciando miliardi sul tavolo semplicemente perché non sappiamo educare i nostri figli.

Si ripete ossessivamente che l’ascensore sociale è bloccato. È un’immagine comoda, giornalisticamente efficace, ma del tutto insufficiente a descrivere la realtà. Non è un ascensore fermo, è un cantiere abbandonato. L’infrastruttura è arrugginita, i bottoni non funzionano e l’idea che un ragazzo di periferia a Napoli o a Palermo possa scalare i piani del potere economico e culturale è più vicina alla fantasia che a un progetto politico concreto. Il background familiare, socio-economico e culturale determina i destini individuali con una precisione chirurgica, ed è esattamente questa la dinamica che mina la competitività del sistema. Un Paese che produce talenti ma li condanna in partenza al vicolo cieco della marginalità.

Quando Maria Chiara Carrozza afferma che contrastare la povertà educativa significa investire sul capitale umano, sta dicendo una verità lapalissiana che dovrebbe indignarci per la sua ovvietà. Eppure, nel dibattito pubblico, questa banalità diventa una rivelazione. Non c’è nulla di innovativo nel dire che se un ragazzo studia di più guadagna di più e contribuisce di più al Pil. L’innovazione semmai è nel calcolo: 3,2 milioni di posti di lavoro bloccati, 2,2 milioni di lavoratori con competenze medie o alte mancanti, 56% di giovani italiani con competenze digitali di base contro il 73% della media europea. Se il lavoro richiede nel 41,5% dei casi competenze digitali avanzate, siamo già fuori mercato.

Siamo il Paese che si vanta di Leonardo e Marconi, ma che non riesce a garantire a metà dei suoi ragazzi una banale alfabetizzazione digitale.Il divario Nord-Sud continua a recitare il suo ruolo di tragedia greca, con il Mezzogiorno costretto a essere comparsa e vittima. Quattro regioni del Sud tra le peggiori cinque dell’intera Unione europea per rischio di esclusione sociale non sono un dato, sono un atto d’accusa. Significa che non si tratta di un ritardo fisiologico, ma di un sistema deliberatamente tollerato. Anche perché, mentre il ministro Valditara rivendica risultati straordinari con l’Agenda Sud, la realtà statistica racconta altro.

È vero, gli abbandoni scolastici espliciti sono all’8,3%, in anticipo sugli obiettivi europei, ma resta la dispersione implicita, quel lento scivolare fuori dai radar, fatto di scuole fatiscenti, docenti precari e curricoli che sembrano scritti da un burocrate degli anni Sessanta. Il dato positivo diventa così un alibi che nasconde il crollo strutturale.

La narrazione governativa ama la parola emergenza, ma l’emergenza qui è stata istituzionalizzata. Il decreto Caivano, con la minaccia della denuncia penale per chi non manda i figli a scuola, ha un che di grottesco. Davvero crediamo che basti il manganello legislativo per trasformare un quattordicenne destinato al lavoro nero in uno studente modello di informatica avanzata? La scuola, se non è attrattiva, non è obbligabile. Se è vista come un parcheggio inutile, nessuna legge riuscirà a invertire la percezione. E il punto è proprio questo: il sistema educativo italiano non è percepito come un ascensore sociale, ma come una prigione a tempo determinato.

Il dato più sconvolgente è quello delle competenze digitali. Non è un dettaglio, è la spina dorsale dell’economia contemporanea. Parlare di intelligenza artificiale, cloud e quantum computing in un Paese dove solo il 56% dei ragazzi under-19 sa usare strumenti digitali di base è una farsa degna di un convegno sul nulla. È come vantarsi di avere il miglior design automobilistico mentre metà dei cittadini non sa guidare. La retorica dell’innovazione tecnologica è la foglia di fico di una società che non ha neanche completato l’alfabetizzazione digitale di base. Il risultato è un gigantesco skill mismatch che frena le aziende e condanna i giovani a essere spettatori anziché protagonisti.

Gli altri Paesi hanno capito da tempo che la lotta alla povertà educativa è una strategia nazionale di lungo periodo. USA, Spagna, Portogallo, Giappone, Singapore. Tutti hanno messo in piedi progetti coordinati, governance chiare e indicatori di monitoraggio. In Italia, invece, preferiamo affidarci all’ennesimo studio presentato a Cernobbio. Studi impeccabili, numeri devastanti, slide ben disegnate, ma una cronica incapacità di trasformare la ricerca in azione.

Intanto, la generazione Z e la generazione Alpha crescono come cavie di laboratorio di un esperimento fallito. Invece di essere la spina dorsale della nuova economia digitale, rischiano di diventare il suo fan club di periferia.Si dirà che i 48 miliardi di Pil aggiuntivo sono l’argomento forte. Ma non sono i 48 miliardi che dovrebbero scandalizzarci.

È il fatto che senza un intervento radicale condanniamo milioni di giovani a un destino di mediocrità strutturale. Non c’è niente di più costoso di un talento sprecato. Ogni ragazzo che abbandona gli studi non è solo un numero nelle statistiche, è una startup fallita prima di nascere, è un brevetto mai depositato, è un ricercatore che non metterà mai piede in un laboratorio, è un imprenditore che non aprirà mai la sua azienda. La povertà educativa non è un problema sociale è il più grande scandalo economico e politico dell’Italia contemporanea.