Sì, lo ammetto. Dopo mesi di retorica accelerazionista al limite del grottesco, nessuno si aspettava che l’amministrazione Trump tirasse fuori qualcosa di vagamente intelligente. Le attese per il Piano d’Azione per l’Intelligenza Artificiale USA erano talmente basse che la comunità tecnologica, me compreso, si aspettava un documento propagandistico, un inno all’innovazione selvaggia senza neanche il fastidio di menzionare i rischi. E invece, mercoledì, la Casa Bianca ha reso pubblico un testo che, pur con i suoi limiti, ha sorpreso praticamente tutti. Perfetto? No. Ma straordinariamente più maturo del previsto. È questo il vero shock.

Il confronto con l’Europa è impietoso. Leggendo le 23 pagine dell’American AI Action Plan e poi confrontandole con le centinaia di pagine del regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, emerge un abisso culturale prima ancora che strategico. Gli Stati Uniti vogliono vincere costruendo un ecosistema tecnologico globale integrato, esportando semiconduttori, modelli di IA e infrastrutture come fossero pacchetti chiavi in mano. Non è solo competizione economica, è geopolitica applicata alla tecnologia. Ogni nuovo chip e ogni nuovo data center americano rafforzano una catena del valore che lega il resto del mondo alla loro visione. L’Europa, invece, resta impantanata in dibattiti etici e regolatori, in un’autocompiacente lentezza che rischia di trasformarla in un cliente premium di servizi altrui.

L’Italia? Sempre più spettatrice, con l’illusione che il nostro approccio “prudente” equivalga a lungimiranza. “In medio stat virtus”, ripetiamo con orgoglio, dimenticandoci che la virtù dell’equilibrio non è immobilismo, ma capacità di esecuzione rapida. Abbiamo perso quel principio e ora ci ritroviamo a commentare le mosse degli altri. Un CEO italiano attivo nel settore AI e Data Center, intervistato da Rivista.AI questa settimana, l’ha detto con chiarezza. Se vogliamo evitare di essere solo un mercato passivo, dobbiamo usare la leva degli appalti pubblici per rafforzare le aziende locali che operano nel cloud e nei data center, sostenendole fino a farle diventare protagoniste della filiera. È una questione non solo economica ma di sicurezza strategica. Non si tratta di chiudersi all’innovazione estera, ma di non dipendere totalmente da essa. È un dettaglio che, in America, sembra essere scolpito nella pietra.

Il documento, pur breve, entra in aspetti tecnici che sorprendono per la loro precisione. Viene raccomandato un investimento prioritario nella ricerca su interpretabilità, controllo e robustezza dei modelli di intelligenza artificiale. Non è solo retorica, ma un’indicazione politica che inserisce la sicurezza direttamente nell’agenda di ricerca nazionale. Viene rafforzato il ruolo di CAISI come organismo per la definizione degli standard e per il miglioramento delle metodologie di valutazione dei sistemi IA. Sembra poco? È la base per definire regole globali che, se imposte attraverso l’esportazione dei loro sistemi, diventeranno automaticamente uno standard de facto.

C’è anche un passaggio sorprendente sulla biosicurezza. Il Piano raccomanda di imporre a tutte le istituzioni finanziate con fondi federali l’obbligo di “screening robusto della sequenza degli acidi nucleici”. Una misura che, nel contesto dell’intelligenza artificiale applicata alla biologia sintetica, è cruciale per evitare abusi e rischi pandemici. Per molti analisti, questa è stata la vera svolta inattesa, perché dimostra che la Casa Bianca sta iniziando a ragionare su scenari di rischio sistemico.

Un altro elemento che ha suscitato interesse è il tema dell’energia e dei data center. Trump, nel suo discorso, ha accennato alla necessità di un sistema normativo federale unificato, ma senza proporre una moratoria sulle regolamentazioni statali. Tuttavia, il Piano chiede alle agenzie federali di considerare il contesto normativo di ciascuno Stato quando prendono decisioni di finanziamento. Una mossa intelligente, perché spinge verso una cooperazione tra livelli di governo senza schiacciare la competizione interna. Sì, c’è anche il famigerato ordine esecutivo contro l’IA “woke”. Un’uscita ideologica? Forse, ma nel testo appare meno demenziale di quanto suggerisca la propaganda, pur restando un potenziale strumento di abuso.

Detto questo, nessuno si illude che il Piano sia la panacea. Kleinman lo definisce “un inizio, ma dobbiamo andare molto oltre”. Manca qualsiasi discussione seria sull’intelligenza artificiale generale e sui rischi estremi legati alla perdita di controllo. L’ambizione di creare un “ecosistema di valutazioni” è eccellente sulla carta, ma priva di meccanismi obbligatori per costringere le aziende a valutare realmente i propri modelli. E soprattutto, come sempre, la vera partita si gioca sui numeri: quanto verrà realmente investito nella ricerca su interpretabilità e robustezza? Finché non ci saranno cifre chiare, tutto rischia di restare un impegno di facciata.

Eppure, anche con queste ombre, il Piano d’Azione per l’Intelligenza Artificiale USA rappresenta un segnale potente. Non è un compromesso politico qualsiasi, ma un manifesto di ambizione strategica. È il messaggio implicito che gli Stati Uniti vogliono guidare la definizione degli standard globali dell’IA, e chi non è in grado di tenere il passo farà la fine di un semplice consumatore di tecnologie altrui. Un futuro in cui l’Europa e l’Italia rischiano di trovarsi in coda, litigando sui dettagli di un regolamento mentre altri decidono quali regole valgono davvero.