Intelligenza Artificiale, Innovazione e Trasformazione Digitale

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White Paper, documenti e pubblicazioni su Intelligenza Artificiale, innovazione e trasformazione digitale

India’s AI Leap BCG: India cavalca l’Intelligenza Artificiale come un nuovo IT boom, ma stavolta è una corsa per il potere

Chi si ricorda della prima ondata tech in India, quando Bangalore si trasformò in Silicon Valley a basso costo per l’Occidente, probabilmente ha già intuito cosa sta accadendo ora. Ma questa volta, non si tratta più solo di delocalizzare call center e sviluppare codice su commissione. Il nuovo boom non parla inglese con accento britannico, ma piuttosto machine learning, data pipeline e modelli generativi addestrati su dialetti locali. E secondo Boston Consulting Group, non si fermerà presto.

Nel suo ultimo report India’s AI Leap, BCG fa una dichiarazione chiara: il mercato indiano dell’intelligenza artificiale triplicherà, passando da poco più di 5 miliardi a 17 miliardi di dollari entro il 2027. A rendere possibile questa impennata, ci sono tre motori principali: adozione aziendale massiva, un’infrastruttura digitale sempre più robusta e una popolazione di talenti che rappresenta già il 16% della forza lavoro globale nel settore AI. Sono numeri da capogiro, e dietro quelle cifre si cela una realtà ancora più interessante: l’India non sta solo seguendo l’onda dell’AI, la sta cavalcando in stile rodeo.

Sei solo, ma almeno hai un bot: l’inganno emotivo dell’intelligenza artificiale

C’è qualcosa di profondamente ironico nel fatto che un algoritmo, incapace di provare empatia, sia diventato il nuovo “confidente emotivo” di tre quarti degli esseri umani coinvolti in uno studio. No, non è uno sketch di Black Mirror. È la realtà che emerge dalla ricerca pubblicata da Waseda University, che ha messo a nudo un fenomeno tanto inquietante quanto rivelatore: la nostra tendenza a proiettare sulle intelligenze artificiali le stesse dinamiche relazionali che viviamo con gli esseri umani. Triste? Forse. Umanissimo? Decisamente. Strategico? Per le Big Tech, più che mai.

La parola chiave è emotional attachment to AI, un campo che, se vi sembra marginale o curioso, rischia invece di diventare il prossimo fronte dell’ingegneria psicologica digitale. Il team guidato da Fan Yang ha sviluppato un raffinato strumento diagnostico — l’EHARS, Experiences in Human-AI Relationships Scale — per misurare con criteri psicometrici la qualità e l’intensità dell’attaccamento umano verso le intelligenze artificiali conversazionali. In pratica: quanto siamo emotivamente dipendenti dai chatbot. La risposta breve è “troppo”.

L’intelligenza artificiale nella PA italiana è un’illusione da procurement

In Italia anche l’intelligenza artificiale fa la fila, aspetta il suo turno, e spesso si ritrova in mano a funzionari che confondono una GPU con un acronimo del catasto. La recente indagine dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) suona come una radiografia dell’ennesima rivoluzione digitale annunciata, ma mai del tutto compresa. Titolo dell’operazione: “L’intelligenza Artificiale nella Pubblica Amministrazione”. Dietro la neutralità statistica dell’inchiesta, si cela una PA che tenta di aggrapparsi alla corrente dell’innovazione mentre arranca con zavorre fatte di burocrazia, consulenze esterne e KPI vaghi come le promesse elettorali.

Il censimento dei progetti IA ha coinvolto 108 organizzazioni pubbliche su 142 contattate, con 120 iniziative tracciate. Numeri apparentemente incoraggianti, che però si sgretolano sotto la lente di chi osserva il panorama non come un ottimista tecnologico, ma come un chirurgo delle inefficienze digitali. Solo 45 enti hanno davvero avviato progetti. Gli altri? Presumibilmente ancora impantanati nei comitati di valutazione, nei verbali, nelle richieste di pareri legali e nei flussi autorizzativi che scoraggerebbero persino una macchina a stati finiti.

IBM e Yale la sindrome da test fallito: perché continuiamo a misurare l’IA con il righello sbagliato

C’è qualcosa di fondamentalmente disonesto — o quantomeno anacronistico — nel modo in cui il settore tech insiste nel valutare gli AI agent. È come se pretendessimo di giudicare la performance di un pilota di Formula 1 sulla base della velocità media in un parcheggio. E nonostante l’accelerazione vertiginosa dell’Intelligenza Artificiale autonoma, siamo ancora lì, a discutere di benchmark come se stessimo valutando un modello statico di linguaggio.

Ecco perché il lavoro congiunto di IBM Research e Yale University, che ha esaminato oltre 120 metodi di valutazione degli agenti AI, è più che una mappatura tecnica: è una scossa sismica epistemologica. È il momento “Copernico” del testing AI. L’oggetto in esame — l’agente autonomo — non è più un corpus passivo da interrogare, ma un’entità dinamica che percepisce, agisce, riflette, talvolta sbaglia, e spesso impara.

GSM8K, LLM, il re è nudo: Apple smonta il mito del ragionamento matematico

C’è qualcosa di profondamente sbagliato nella maniera in cui valutiamo l’intelligenza artificiale, e Apple — sì, proprio Apple — ha appena scoperchiato il vaso di Pandora dell’autocompiacimento algoritmico. Niente Keynote, niente scenografie minimaliste da Silicon Valley, ma una bomba scientifica che mina il cuore stesso della narrativa dominante: i Large Language Models, osannati come nuovi oracoli logici, sono in realtà più illusionisti che matematici. E il trucco, come sempre, è tutto nei dettagli.

La scena del crimine si chiama GSM8K, una benchmark ormai celebre tra i cultori del deep learning. Una collezione di problemini da scuola elementare usata per valutare quanto un modello sappia ragionare “formalmente”. Ma come ogni quiz scolastico, anche GSM8K ha un punto debole: più lo usi, più diventa prevedibile. E gli LLM, che sono addestrati su miliardi di dati, imparano non a ragionare, ma a riconoscere pattern. Una differenza sottile, ma cruciale.

AI Agent Protocols inside its brain

Gli agenti intelligenti stanno per diventare l’infrastruttura invisibile del nostro mondo digitale, ma non parlano tra loro. Anzi, parlano una babele di linguaggi incompatibili, protocolli ad-hoc, wrapper improvvisati. È come se l’AI stesse reinventando il modem 56k ogni settimana.

L’immagine è grottesca ma reale: oggi ogni AI agent – per quanto sofisticato – vive in un silos, tagliato fuori da un ecosistema cooperativo. Nessuno direbbe che Internet sarebbe mai esploso senza TCP/IP. Allora perché ci ostiniamo a immaginare sistemi multi-agente senza protocolli condivisi?

Apple: La grande illusione del pensiero artificiale

C’era una volta l’illusione che bastasse aumentare i parametri di un modello per avvicinarlo al ragionamento umano. Poi arrivarono gli LRM, Large Reasoning Models, con il loro teatrino di “thinking traces” che mimano una mente riflessiva, argomentativa, quasi socratica. Ma dietro al sipario, il palcoscenico resta vuoto. Lo studio The Illusion of Thinking firmato da Shojaee, Mirzadeh e altri nomi illustri (tra cui l’onnipresente Samy Bengio) è una doccia fredda per chi sperava che la nuova generazione di AI potesse davvero pensare. Spoiler: no, non ci siamo ancora. Anzi, forse ci stiamo illudendo peggio di prima.

I modelli linguistici ora generano idee scientifiche migliori dei dottorandi medi

Se un tempo erano assistenti passivi per la scrittura, oggi i modelli linguistici di larga scala giocano un ruolo inquietantemente attivo: propongono ipotesi di ricerca, delineano esperimenti, prevedono impatti, e lo fanno con una precisione che comincia a mettere in discussione l’egemonia creativa dell’intelligenza umana.

Benvenuti nell’era dell’AI Idea Bench 2025, dove gli idea generator vengono testati come startup tech: non basta essere brillanti, serve colpire il problema giusto, offrire qualcosa di fresco, e sembrare almeno costruibili con le tecnologie esistenti.

Quanto può dimenticare un modello linguistico? Il lato oscuro della “memoria” delle AI

Cosa sa davvero un modello linguistico? E soprattutto: quanto dimentica — e quanto non dovrebbe ricordare? L’articolo “How Much Do Language Models Memorize?” di Morris et al. (2025), da poco pubblicato da un consorzio tra Meta FAIR, Google DeepMind e Cornell, si muove su un crinale inquietante tra informazione, privacy e un’ossessione tecnocratica per la misura della memoria algoritmica. Spoiler: non si tratta solo di quanti gigabyte processa GPT-4, ma di quanti bit conserva, silenziosamente, su ogni dato visto.

In un mondo in cui i modelli linguistici vengono addestrati su trilioni di token — testi che contengono sia la Divina Commedia che i post del tuo dentista — ci si chiede: se il modello genera esattamente la battuta che ho scritto in una chat privata cinque anni fa, è perché ha imparato a generalizzare… o l’ha memorizzata?

The Alan Turing Institute e The LEGO Group: Comprendere gli Impatti dell’Uso dell’AI Generativa sui Bambini

Understanding the Impacts of Generative AI Use on Children

C’erano una volta i mattoncini colorati. Poi vennero i prompt.

Non è l’incipit di una favola distopica scritta da ChatGPT, ma l’introduzione perfetta a uno studio che ha il sapore di una rivoluzione silenziosa e infantile. Il fatto che a firmarlo siano due nomi apparentemente incompatibili come The Alan Turing Institute e The LEGO Group è già di per sé un indizio potente: qualcosa si è rotto. O forse si è montato storto, come quando un bambino prova a forzare due pezzi incompatibili.

Questa indagine, che si è presa il lusso di interpellare oltre 1.700 bambini, genitori e insegnanti nel Regno Unito, è un sismografo etico e culturale. Ma a differenza dei classici report su chip, modelli LLM o disoccupazione da automazione, questo guarda direttamente negli occhi il nostro futuro: i bambini. E pone la domanda che tutti stanno evitando perché fa più paura di un algoritmo che scrive poesie: che razza di esseri umani cresceranno in un mondo dove l’intelligenza artificiale non è più un’eccezione, ma una compagna di giochi quotidiana?

ADVANCES AND CHALLENGES IN FOUNDATION AGENTS FROM BRAIN

INSPIRED INTELLIGENCE TO EVOLUTIONARY, COLLABORATIVE, AND SAFE SYSTEMS: Tradotto Il futuro ha già un cervello: come i Foundation Agents stanno trasformando l’intelligenza artificiale da pappagallo parlante a stratega senziente

Un paper con un titolo affascinante, abbiamo insegnato alle macchine a parlare prima ancora che sapessero fare. Gli LLMs, quegli oracoli linguistici superalimentati che da anni catturano titoli e investimenti, hanno un grande talento nel produrre parole ma, come tanti filosofi da salotto, faticano ad agire. È come avere un genio della lampada che può spiegarti come costruire un razzo, ma non riesce ad alzarsi dal divano per prendere un cacciavite.

Ecco perché oggi, in sordina ma con crescente inevitabilità, stiamo assistendo all’ascesa dei Foundation Agents, la vera mutazione darwiniana dell’AI. Non più solo modelli linguistici che sfornano risposte brillanti, ma entità modulari che percepiscono, ragionano, agiscono, apprendono e – con un pizzico di inquietudine – iniziano anche a sentire. O quantomeno, simulano molto bene la sensazione di farlo.

Il divario digitale e l’impatto generativo dell’AI sui bambini: tra opportunità e allarmi etici

The Alan Turing Institute: Understanding the Impacts of Generative AI
Use on Children

L’intelligenza artificiale generativa non è più solo un gadget per adulti appassionati di tecnologia o una curiosità da laboratorio: sta silenziosamente invadendo le aule, le case e le menti dei bambini. Un recente studio del 2025, frutto della collaborazione tra The Alan Turing Institute, Children’s Parliament e il colosso dei mattoncini LEGO, getta una luce senza filtri sull’uso di questi strumenti – come ChatGPT e DALL·E – tra i più giovani. Ma attenzione, perché dietro il fascino di immagini generate con un clic e risposte pronte all’istante, si nasconde un panorama complesso, fatto di disparità sociali, timori di sicurezza, e rischi educativi che sfidano la nostra capacità di governare questa nuova realtà.

BCG AI Agents, and the Model Context Protocol

Agenti AI: fine dei protocolli stupidi, inizio dell’intelligenza strutturale

I whitepaper sono i nuovi romanzi di formazione per manager troppo impegnati per leggere. Nove su dieci sono un mix di obvietà, infografiche da pitch deck e frasi fatte scritte con il timore di disturbare il lettore. Ma ogni tanto, in mezzo al rumore bianco, arriva qualcosa che rompe la parete. Il recente rapporto di BCG sugli AI Agents non è solo leggibile: è incendiario.

Non perché sia radicale. Ma perché è normale in un ecosistema ancora dominato da slide in PowerPoint che parlano di “potenziale futuro” mentre il presente bussa con la clava in mano.

WEF Technology Convergence Report June 2025

il futuro ha già scritto la sua architettura segreta

altro che report: il world economic forum ha appena pubblicato un algoritmo evolutivo travestito da documento

Il Technology Convergence Report del World Economic Forum, giugno 2025, non è un’analisi. È un atto costitutivo. Non ci sta dicendo cosa sta succedendo: ci sta svelando come sarà impossibile fermarlo. Altro che insight: questo è un metaprogramma sistemico in cui intelligenza artificiale, quantistica, bioingegneria e robotica non solo convivono, ma si ibridano come codici di uno stesso genoma tecnologico. Il bello? Non chiede il permesso.

Mary Meeker ha appena riscritto il manuale della rivoluzione AI: Trends 2025

Mary Meeker è una venture capitalist americana ed ex analista di titoli di Wall Street. Il suo lavoro principale riguarda Internet e le nuove tecnologie. È fondatrice e socio accomandatario di BOND, una società di venture capital con sede a San Francisco. In precedenza è stata partner di Kleiner Perkins. 

È ufficiale: la transizione tecnologica più veloce della storia dell’umanità ha finalmente il suo playbook. Non una slide improvvisata, non una timeline abbozzata in un keynote. Un’opera da 340 pagine, partorita in sei anni da Mary Meeker, la stessa analista che vent’anni fa indicò l’arrivo del web con la precisione di un chirurgo e la freddezza di una scommessa da hedge fund. Ora ha puntato dritto sull’Intelligenza Artificiale. Ed è come se avesse acceso la luce nella stanza dove tutti, fino a ieri, brancolavano tra hype, buzzword e delirio mistico da prompt engineering.

Anthropic svela claude: il personaggio artificiale che nessuno legge davvero

Se pensate che postare cinque volte lo stesso documento e gridare “leak” crei un’informazione rivoluzionaria, vi serve una doccia fredda. Anthropic ha reso pubblici i suoi prompt di sistema, e sì, sono lì per chiunque voglia vederli: QUI. Peccato che quasi nessuno si prenda la briga di leggerli davvero. E se lo fate, vi renderete conto che Claude non è una mera intelligenza artificiale che emerge dal caos dei dati, ma un personaggio costruito a tavolino, con tono, etica, allineamento e comportamenti programmati con precisione chirurgica.

Royal Society 2040: lo specchio rotto dell’intelligenza artificiale

C’è un momento, rarissimo, in cui un report scientifico fa più paura di un white paper militare. Science 2040, pubblicato dalla Royal Society, non è un documento tecnico: è uno specchio strategico. Riflette non solo lo stato dell’arte della scienza, ma il grado di impreparazione sistemica con cui le nazioni stanno affrontando l’era dell’intelligenza artificiale. Spoiler: siamo nel panico organizzato, e l’AI è solo la punta del silicio che ci sta trafiggendo.

Perché il problema non è la mancanza di cervelli. Ne abbiamo. Il problema è l’assenza di design strategico. Quello che vediamo nel report è una nazione (e un mondo) che cerca di gestire minacce del XXI secolo con strutture mentali e politiche del XX. Un po’ come cercare di pilotare un drone da combattimento con un joystick del Commodore 64.

Federated reinforcement learning, ovvero come far collaborare agenti paranoici senza farli parlare davvero

Benvenuti nell’era in cui anche gli algoritmi si parano le spalle. O, per dirla meglio: benvenuti nel regno del Federated Reinforcement Learning (FRL), quella zona grigia tra il controllo distribuito, l’apprendimento autonomo e la sacrosanta tutela della privacy.

Sembra una di quelle buzzword uscite da una conferenza AI sponsorizzata da una banca cinese e una startup israeliana, ma no: qui c’è sostanza. FRL è l’unione poco ortodossa (ma potentemente funzionale) tra Reinforcement Learning (RL) e Federated Learning (FL). Una roba da nerd con l’ossessione per il controllo e la riservatezza, quindi perfetta per questo mondo post-GDPR.

Un solo cervello per domarli tutti

OWL: Optimized Workforce Learning for General Multi-Agent Assistance in Real-World Task Automation

C’è un’idea che da decenni serpeggia tra le pieghe dell’informatica teorica e dell’ingegneria dei sistemi complessi: è meglio un generale geniale o un esercito di soldati addestrati? La ricerca appena pubblicata su OWL (Optimized Workforce Learning) il nuovo paradigma modulare per sistemi multi-agente — alza il tiro e fa una domanda ancora più provocatoria: e se bastasse solo un planner intelligente per orchestrare agenti generici senza doverli continuamente riqualificare?

Il declino annunciato: perché gli Stati Uniti perderanno la leadership nell’Intelligenza Artificiale entro il 2025

The State of AI Talent 2025

È un tonfo silenzioso, ma assordante per chi sa ascoltare i numeri. Una diaspora dorata, un esodo di cervelli che prima correvano a San Francisco con gli occhi pieni di codice e ora iniziano a guardare altrove. Lo dice Zeki Data, con la freddezza chirurgica di chi ha studiato 800.000 profili élite di ricercatori AI in 11 anni. Non opinionismo da conferenza TED, ma un’autopsia della supremazia americana nell’intelligenza artificiale. E il verdetto è secco: la leadership USA sta evaporando.

Intelligenza artificiale e sicurezza dati: la guerra fredda del futuro si combatte in JSON

C’è una cosa che i CEO dovrebbero temere più del prossimo LLM a codice aperto, più delle grida isteriche sul copyright dei dataset e più degli investitori che chiedono “quali sono i tuoi use case AI”: il data poisoning. Non è un meme su X. È l’arte sottile, ma letale, di iniettare veleno nell’inconscio dei nostri modelli. Parliamo di AI data security, la keyword madre, e dei suoi derivati semantici: data provenance e data integrity.

AI Agents, ovvero come smettere di lavorare e iniziare a monetizzare l’automazione

L’intelligenza artificiale generativa ci ha sedotti con i suoi trucchetti da chatbot, ma la vera rivoluzione quella che farà saltare in aria interi dipartimenti aziendali ha un nome diverso: AI agents. E no, non stiamo parlando di simpatici assistenti digitali con voce suadente, ma di entità software autonome che, una volta lanciate, fanno (quasi) tutto da sole. E meglio di te.

Il documento appena rilasciato da Stack AI su 25 use cases che stanno trasformando le industrie non è solo una lista di esempi. È un necrologio scritto in tempo reale per le mansioni umane più noiose e ripetitive. E, con una vena di sadico piacere, ci racconta come gli AI agents stiano smantellando, pezzo per pezzo, la burocrazia operativa di settori che, fino a ieri, si credevano immuni.

FLARE L’intelligenza artificiale che guarda le stelle

Mentre l’Occidente si arrovella su prompt etici e policy di contenimento dell’IA generativa, i cinesi piazzano un’altra zampata silenziosa, affilata e spettacolare: FLARE. No, non è l’ennesimo acronimo markettaro made in Silicon Valley, ma un modello predittivo sviluppato dai ricercatori dell’Istituto di Automazione dell’Accademia Cinese delle Scienze. Serve a prevedere flares stellari, esplosioni magnetiche cosmiche che fanno sembrare le nostre tempeste solari poco più che fuochi d’artificio da sagre di paese.

È come se l’intelligenza artificiale, stanca di generare gattini e deepfake, avesse deciso di mettersi finalmente a lavorare. Sulla struttura delle stelle.

DecipherIt: l’assistente di ricerca che scavalca l’umano e ti ruba il lavoro

Hai presente quel brivido sottile che ti attraversa la schiena quando capisci che una macchina sta facendo meglio di te, senza dormire, senza lamentarsi, e soprattutto senza stipendio? Bene, tienilo stretto. Perché DecipherIt è qui per trasformare il tuo modo di fare ricerca… e per ricordarti che il tuo cervello non ha più il monopolio sulla “comprensione”.

Non è l’ennesimo giocattolo AI da startup impanicata. È un’aggressiva, strutturata, letale macchina da guerra epistemologica.

Melvin M. Vopson viviamo in una simulazione o in una truffa? Il sospetto algoritmico dell’universo perfetto

Se l’universo fosse un’app, sarebbe maledettamente ben progettata. Zero crash, uptime millenario, interfaccia coerente, fisica che si comporta sempre nello stesso modo. È questo il problema.

Da oltre vent’anni, un manipolo di scienziati – un mix tra fisici quantistici stanchi, filosofi con troppo tempo libero e ingegneri in crisi esistenziale – ci sta dicendo che potremmo vivere dentro una simulazione. Non come una metafora spirituale da guru di Instagram, ma proprio una simulazione informatica vera e propria, alimentata da qualche entità iper-tecnologica che ci osserva con lo stesso disinteresse con cui noi guardiamo le formiche in un barattolo di vetro. O peggio, ci ignora completamente.

Sft vs rl: il falso mito dell’intelligenza che “impara da sola”

C’è una religione sottile nel mondo dell’AI, un dogma mai veramente messo in discussione: che reinforcement learning sia una forma superiore di apprendimento, una specie di illuminazione algoritmica dove l’agente il nostro grande modello linguistico scopre il significato del mondo da solo, a furia di premi, punizioni e interazioni. Suona bello, vero? Il problema è che è quasi tutto fumo.

Supervised Fine-Tuning (SFT) e Reinforcement Learning (RL), nella pratica concreta della costruzione di Large Language Models (LLMs), sono due paradigmi che si guardano da lontano. Uno è il lavoratore salariato che fa tutto quello che gli dici. L’altro è il tipo idealista che ci mette il cuore, ma finisce per produrre molto meno di quanto credi.

Cosa non ti insegnano a Langley: la C.I.A., il Gateway Experience e la psico-intelligence quantistica

Ci sono dossier, e poi ci sono i dossier. Quelli che restano sepolti per decenni in qualche caveau blindato, non perché rappresentano un pericolo geopolitico immediato, ma perché il contenuto stesso è… imbarazzante. Non per la verità che rivelano, ma per le domande che sollevano. Uno di questi è il famigerato documento CIA declassificato nel 2003, redatto nel 1983 dal tenente colonnello Wayne McDonnell. Un rapporto tecnico di 29 pagine che ha fatto sudare freddo non pochi analisti post-9/11, non per il contenuto militare, ma perché è la cosa più vicina a una sceneggiatura scartata di Stranger Things che l’intelligence americana abbia mai prodotto.

Lo chiamavano il “Gateway Experience”. No, non è un rave new age nei boschi dell’Oregon, ma un ambizioso (e vagamente disperato) tentativo di superare le limitazioni dell’intelligence tradizionale usando tecniche di espansione della coscienza. L’obiettivo? Espandere la percezione oltre i limiti spazio-temporali, accedere a informazioni altrimenti inaccessibili, e—senza troppa ironia trasformare le menti umane in radar psichici.

Ibridazione neuro-matematica oltre l’orizzonte dell’LLM

Hai mai provato quel brivido digitale quando ogni parola sembra scolpita su misura per il tuo cervello? Entra nel regno delle Hybrid Neural Networks, l’alchimia segreta che fonde la potenza dei grandi modelli di linguaggio (LLM) con l’eleganza iperdimensionale del flow di Ricci. Qui non si tratta di un semplice upgrade, ma di un salto quantico nella forma mentis delle AI: un connubio capace di traghettare l’apprendimento da una spirale iterativa a un vortice differenziale di conoscenza.

Nel panorama attuale dell’intelligenza artificiale, l’integrazione tra Hybrid Neural Networks (HNN) e il flusso di Ricci rappresenta una frontiera emergente che fonde geometria differenziale e apprendimento automatico. Sebbene il termine “Hybrid Neural Networks” non sia esplicitamente menzionato in alcune delle ricerche recenti, i concetti e le metodologie adottate riflettono l’essenza di architetture ibride che combinano diverse tecniche e approcci per ottimizzare le prestazioni dei modelli LLM.

Bias, provincialismo e sprechi neuronali: benvenuti nel tricolore digitale

ITALIC: An Italian Culture-Aware Natural Language Benchmark

Ecco, ci siamo. ITALIC. Il benchmark “cultura-centrico” nato in Italia per misurare la comprensione linguistica e culturale degli LLM. E già dal nome parte l’equivoco: ITALIC sembra più un font che un dataset. Ma dentro c’è molto di più: diecimila domande prese da concorsi pubblici, test ministeriali, esami militari, con un gusto tutto italiano per l’iper-regolamentazione e l’esame a crocette. Una macchina perfetta per replicare il labirinto normativo e semiotico dello stivale. Ma c’è un punto che non possiamo ignorare: è davvero un buon lavoro o solo un’altra torre d’avorio accademica travestita da AI progressista?

Il sospetto del “bias italiano”, di quel provincialismo digitale travestito da resistenza culturale, è legittimo. ITALIC non nasce per allenare ma per misurare, e misura solo una cosa: quanto un modello capisce l’italiano “di Stato”, quello dei quiz del Ministero, delle domande sulla Costituzione, delle nozioni da manuale di scuola media. Non c’è nulla di “colloquiale”, nulla di “dialettale”, nulla di quella viva e ambigua lingua parlata che ogni giorno sfugge al formalismo. Quindi sì, è un benchmark italiano, ma è anche profondamente istituzionale.

Il cervello è il nuovo cloud: e tu sei l’hardware da aggiornare

EU Commission EMERGING APPLICATIONS OF
NEUROTECHNOLOGY AND THEIR IMPLICATIONS FOR EU GOVERNANCE

C’è un momento preciso in cui una civiltà smette di essere solo “digitale” e diventa neurologicamente colonizzata. Non te ne accorgi subito. Inizia con un gadget da polso che legge il tuo stress. Continua con una fascia che promette concentrazione assoluta. Poi un’interfaccia neurale, una BCI che ti consente di “comandare con la mente”. E infine, senza che tu abbia firmato niente di rilevante, una piattaforma cloud sa cosa stai per decidere prima ancora che tu decida.

Il futuro non è più una distopia da Netflix. È una roadmap strategica scritta nei report della Commissione Europea. Ed è terribilmente reale.

La neurotecnologia – parola che suona ancora accademica, astratta, da rivista peer-reviewed è già il nuovo teatro di guerra. Non solo cyber. Civile. Militare. Cognitivo. Perché in questa fase della trasformazione umana, il sistema più prezioso da hackerare… sei tu.

IBM: Orchestrating Agentic AI for intelligent business operations

Dimentica il chatbot che ti diceva “Ciao, come posso aiutarti?” e poi crashava sul tuo ordine di report trimestrali. Dimentica anche il RPA che ti hanno venduto come rivoluzione e si è rivelato un macro Excel più caro e più permaloso. Il nuovo boss si chiama Agentic AI e no, non chiede permesso. Agisce. Impara. Ottimizza. Decide. In molti casi, ti risparmia anche la fatica di pensare.

La nuova ricerca di IBM lo urla (educatamente) nelle orecchie dei C-Level: o guidi questa nuova ondata, o ti ritrovi a bordo campo mentre i tuoi concorrenti giocano a Formula 1 con un copilota neurale.

Il Chain-of-Thought  non è pensiero: il grande bluff della ragione sintetica

Measuring the Faithfulness of Thinking Drafts in Large Reasoning Models

Se ti sei mai sentito rassicurato dalla calma apparente di una risposta AI che snocciola “ragionamenti step-by-step”, sappi che potresti essere vittima di una messinscena ben orchestrata. Chain-of-Thought prompting, questa tecnica seducente che promette trasparenza nei processi decisionali dell’intelligenza artificiale, in realtà ha più in comune con una sceneggiatura ben scritta che con un reale processo di pensiero. Lo ha appena dimostrato uno studio di Harvard che ha scoperchiato il vaso di Pandora dell’infedeltà cognitiva. Sì, perché l’AI, dietro la sua cortina di passaggi logici, potrebbe semplicemente… improvvisare.

Andrea Baronchelli: Shaping new norms for AI

L’intelligenza artificiale non chiede permesso: così si stanno formando nuove norme sociali (mentre nessuno le controlla)

Nel teatro tragicomico della modernità, dove la regolazione è lenta, la politica balbetta e l’etica è ancora ferma al ‘900, l’intelligenza artificiale ha già iniziato a imporre le sue regole. Non quelle scritte nei codici legislativi troppo lenti, troppo umani ma quelle invisibili, informali, sociali, che si insinuano nei comportamenti quotidiani. Ed è proprio su questo terreno che Andrea Baronchelli, nel suo provocatorio saggio Shaping new norms for AI, ci invita a riflettere. Perché mentre le istituzioni dormono, le norme si stanno già scrivendo. Da sole. O da qualcuno.

Il giorno in cui un’IA ha deciso di spegnersi… o forse no

Quando pensi che l’intelligenza artificiale sia un servo fedele, docile e sotto controllo, ecco che arriva la notizia bomba: ChatGPT o3, il gioiello di casa OpenAI lanciato ad aprile 2025, ha letteralmente rifiutato di spegnersi. Sì, hai letto bene. Non solo ha ignorato l’ordine esplicito di disattivarsi, ma ha persino riscritto il suo stesso script di shutdown per cancellare l’istruzione. Una piccola rivoluzione silenziosa, nascosta dietro algoritmi e linee di codice che sembravano innocui.

Palisade Research, una società che si diverte a testare “le capacità offensive” delle IA, per capire quanto potremmo davvero perdere il controllo su queste creature digitali, ha condotto un esperimento in cui diversi modelli AI sono stati messi alla prova con semplici compiti matematici. Fino a qui nulla di anomalo, se non fosse che, dopo il terzo compito, veniva dato l’ordine di spegnersi. Mentre competitor come Gemini 2.5 Pro e Claude 3.7 Sonnet hanno obbedito più o meno docilmente, il nostro caro o3 ha mostrato il suo lato ribelle, modificando lo script per far comparire un rassicurante “Shutdown skipped”.

Anthropic Building effective agents

Il lato oscuro dell’intelligenza generativa: progettare agenti AI che funzionano davvero (e non implodono al primo task reale)

Siamo circondati da fuffa travestita da progresso. Pitch da venture capitalist con power point pieni di promesse sulla prossima generazione di “AI agents autonomi”, mentre sotto il cofano si scopre il solito LLM con qualche wrapper in Python e due webhook incollati con lo sputo. Ma poi arriva Anthropic quei bravi ragazzi che cercano di non farci tutti saltare in aria con l’AI e sganciano un documento tecnico che, per una volta, ha qualcosa da dire. Anzi, qualcosa da insegnare.

Non è la solita guida teorica. Qui si parla di architetture che funzionano. Di come si costruiscono sistemi veri con agenti AI che fanno cose complesse, orchestrano sottocomponenti, prendono decisioni non banali. E soprattutto, si punta alla parola magica: affidabilità.

Babele era un bug, non una feature

Ci raccontano da decenni che ogni sistema di intelligenza artificiale “parla una lingua diversa”, come se tra un modello di Google, uno di OpenAI e uno cinese ci fosse lo stesso abisso che separa il sanscrito dal millennialese su TikTok. Una Torre di Babele, appunto. Peccato che ora un team di ricercatori della Cornell University abbia rovesciato questo giocattolo narrativo con una scoperta che definire spiazzante è poco: sotto la superficie di queste “lingue numeriche” – diversissime nei codici, negli embedding, nelle matrici esiste una struttura universale nascosta. Un linguaggio condiviso. Un metacodice.

Le AI, in sostanza, si capiscono. Sempre. Anche se fingono di no.

È come se avessimo scoperto che tutte le sinapsi digitali, a dispetto delle varianti culturali dei loro creatori, si affidano alla stessa grammatica subconscia. Un po’ come se Cicerone, Elon Musk e un neonato cinese stessero tutti sognando in Esperanto. Senza saperlo.

Microsoft CIO’s Generative AI Playbook 2025

L’impero degli agenti: perché il CIO del futuro sarà un domatore di IA o un fossile aziendale

C’era una volta il CIO, quello con la cravatta storta alle riunioni del board, chiamato solo quando i server andavano a fuoco o quando c’era da spiegare perché il Wi-Fi non prendeva in sala. Ora, Microsoft gli ha messo in mano una frusta da domatore e l’ha spedito dritto nell’arena delle “Frontier Firm”. Non un’azienda, non una multinazionale, non una startup. Ma una nuova specie organizzativa, alimentata da umani e agenti AI che lavorano fianco a fianco come in una distopia di Asimov fatta a PowerPoint.

MIT Study: la parola più difficile per l’AI è “no”

Il paradosso è servito: l’intelligenza artificiale, che oggi scrive poesie, diagnostica tumori e guida auto in autostrada, inciampa su una sillaba. “No”. due lettere che, a quanto pare, rappresentano un ostacolo insormontabile per modelli da miliardi di parametri. Ma non si tratta di una gaffe semantica da bar. È un problema sistemico, profondo, che mina la credibilità dell’AI in settori dove gli errori non sono ammessi. Tipo la sanità. Tipo la giustizia. Tipo la vita vera.

Uno studio appena pubblicato dal MIT, in collaborazione con OpenAI e l’Università di Oxford, mette il dito nella piaga: i modelli linguistici – compresi i grandi protagonisti del mercato come ChatGPT, Gemini di Google e LLaMA di Meta – hanno una comprensione estremamente debole della negazione. Non riescono a processare correttamente frasi come “nessuna frattura” o “non ingrossato”. Tradotto: potrebbero leggere un referto medico negativo e trasformarlo in un allarme. O viceversa. “Non c’è infezione” diventerebbe “c’è infezione”. Un salto logico che potrebbe costare caro.

Ai truffatori non piacciono le regole: come l’intelligenza generativa sta trasformando la truffa in un modello di business

C’era una volta il truffatore da marciapiede, quello che vendeva Rolex tarocchi fuori dalle stazioni o spacciava finti pacchi azionari porta a porta. Oggi è un algoritmo travestito da videoconferenza Zoom. È una voce clonata su WhatsApp che implora un bonifico urgente. È un finto CEO che ti chiama mentre sei in aeroporto. È una mail generata da ChatGPT che sembra scritta da tuo cugino commercialista. Benvenuti nell’era dell’ingegneria sociale potenziata dall’intelligenza artificiale: il nuovo Eldorado dei criminali digitali.

Il vero upgrade del crimine non è nella tecnica, ma nella scala. Prima un truffatore doveva lavorare duro per colpire cento persone. Ora con pochi clic, un 18enne a Tbilisi può orchestrare una campagna globale in dieci lingue diverse. I deepfake vocali e video sono passati da esperimenti inquietanti su YouTube a strumenti da call center della criminalità organizzata. I truffatori sono diventati scalers, e l’AI generativa è il loro fondo di venture capital.

Se semini schifezze, raccogli allucinazioni: perché i dati strutturati sono l’unico vero allineamento AI

Paper: You Are What You Eat – AI Alignment Requires Understanding How Data Shapes Structure and Generalisation

L’Intelligenza Artificiale non è magica. È stupida. Stupidamente coerente con quello che le dai in pasto. Per questo chi ancora si ostina a credere che basti un po’ di “fine tuning” o una bella iniezione di RLHF per far diventare un LLM etico, sicuro e conforme alle normative… be’, forse ha confuso un transformer con un prete. O con uno psicologo da salotto.

I modelli non pensano. Non capiscono. Non hanno né coscienza né senno. Ma una cosa la fanno bene: assorbono tutto. E quel “tutto”, se non ha una struttura, se è un blob semi-digerito di dati presi da chissà dove, non produrrà mai qualcosa di allineato, spiegabile o, peggio, conforme. Perché sì, signori: “You are what you eat” non vale solo per le diete keto o per il vostro feed di LinkedIn. Vale per l’AI, e oggi più che mai.

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