La notizia è passata come una scarica elettrica nei circoli tecnologici globali. Moonshot AI, la start-up cinese sostenuta da Alibaba e Tencent, ha annunciato il rilascio del suo nuovo modello open-source Kimi K2 Thinking, un colosso da un trilione di parametri che ha superato GPT-5 di OpenAI e Claude Sonnet 4.5 di Anthropic in diversi benchmark di ragionamento e capacità agentiche. In altre parole, un progetto open-source ha battuto le intelligenze artificiali chiuse più evolute del pianeta. Un dettaglio che, nel linguaggio dell’innovazione, suona come una dichiarazione di guerra.
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La Cina ha appena alzato il sipario su una delle mosse più radicali dell’era post-silicio: una direttiva che impone ai data center finanziati dallo Stato di utilizzare esclusivamente chip AI prodotti internamente. Un ordine perentorio che, a prima vista, sembra un atto di patriottismo industriale, ma che in realtà è una mossa chirurgica dentro la guerra fredda tecnologica che si combatte sotto il rumore dei server. Il documento, emesso da Pechino, stabilisce che i progetti pubblici di data center con meno del 30% di completamento dovranno rimuovere tutti i chip stranieri già installati, mentre quelli più avanzati verranno analizzati uno per uno. Una pulizia selettiva che colpisce nel cuore l’architettura globale dell’intelligenza artificiale.
Nel mondo dell’intelligenza artificiale ogni settimana è un terremoto, ma questa volta il sisma ha un epicentro geopolitico. Due nuovi strumenti di programmazione generativa lanciati da aziende americane, SWE-1.5 di Cognition AI e Composer di Cursor, hanno scatenato un dibattito feroce: potrebbero essere stati costruiti su modelli cinesi, in particolare sulla serie GLM sviluppata da Zhipu AI, la società di Pechino che sta rapidamente emergendo come il “Google cinese” del machine learning. Il problema non è tanto tecnico quanto etico e simbolico. È la nuova frontiera di una guerra fredda digitale in cui l’intelligenza artificiale open source diventa terreno di scontro fra culture, modelli di governance e potere economico.
Di fronte alle dichiarazioni di Trump sul divieto di esportare i chip Blackwell più avanzati, è utile smontare con occhio critico quello che è dire, quello che potrebbe fare, e quello che è già in atto.
Trump afferma che il nuovo Blackwell è “dieci anni avanti a ogni altro chip” e che “non lo diamo ad altri”, ribadendo l’intenzione di riservarlo agli Stati Uniti. In altre parole, i chip top-level sarebbero soggetti a restrizioni ancora più stringenti rispetto a quelle già vigenti sotto le politiche di controllo statunitensi.
In un mondo dove le supply chain sono catene al collo delle superpotenze, la Cina di Xi Jinping sa benissimo come stringere il cappio. Mentre i media occidentali continuano a dipingere Donald Trump come il bullo del commercio internazionale, con i suoi dazi “fantasiosi” e minacce recapitate con un tweet, la verità, forse, è un po’ più ironica: è Pechino che ha forzato la mano, trasformando le terre rare in un’arma geoeconomica letale.
Le azioni di Trump allora potrebbero essere lette non come frutto di un capriccio protezionista americano, ma come una reazione a una mossa calcolata di Xi, che ha trasformato il suo dominio sul 90% della raffinazione globale di questi minerali strategici in uno strumento di ricatto planetario.
Benvenuti nel nuovo capitolo della guerra commerciale, dove la narrativa consolidata si capovolge e Trump appare non come l’aggressore, ma come il difensore di un Occidente colto alla sprovvista e dove l’incontro che si è appena svolto a Busan, in Corea del Sud, tra il presidente americano e quello cinese più che una svolta segna più che una svolta una tregua (armata).
La startup cinese MiniMax ha appena lanciato il suo modello linguistico open source M2, un’architettura avanzata che sta facendo parlare di sé nel panorama globale dell’intelligenza artificiale. Con una valutazione di 4 miliardi di dollari e il supporto di giganti tecnologici come Alibaba e Tencent, MiniMax sta cercando di affermarsi come leader nel campo dei modelli linguistici di grandi dimensioni.
In un mondo dove l’AI genera testi più eloquenti di un discorso presidenziale e immagini capaci di ingannare persino i più esperti, molto probabilmente la domanda che dobbiamo porci non è più se regolare questa tecnologia, ma come. Viviamo, inutile nascondercelo, in un’arena geopolitica dove l’Europa brandisce il righello della compliance come un monito biblico, gli USA accelerano a tavoletta sul binario dell’innovazione “libera per tutti” (o quasi) e la Cina orchestra un balletto tra sorveglianza e supremazia tecnologica.

Se Jeff Bezos ha annunciatola scorsa settiman all Italian Tech WeeK l’intenzione di lanciare data center nello spazio, la proposta dei ricercatori cinesi va oltre: immaginano un’infrastruttura satellitare globale condivisa, alimentata dall’intelligenza artificiale, per offrire servizi in tempo reale a tutti gli abitanti della Terra, evitando il sovraffollamento pericoloso dello spazio.
Il nuovo rapporto del governo statunitense ha alzato il sipario su una realtà che tutti sussurravano nei corridoi della Silicon Valley ma pochi avevano messo nero su bianco: i modelli AI cinesi restano indietro rispetto alle controparti americane, sia in termini di performance che di sicurezza, nonostante la loro crescente popolarità globale. A firmare l’analisi è il Centre for AI Standards and Innovation del NIST, insieme al Dipartimento del Commercio, che ha deciso di classificare piattaforme come DeepSeek nella categoria “adversary AI”. Non proprio il biglietto da visita ideale quando si parla di fiducia e adozione su larga scala.
Biomap sfida Alphafold e riscrive le regole della scoperta di farmaci con l’intelligenza artificiale

Parlare oggi di intelligenza artificiale applicata al biotech significa toccare uno degli snodi più delicati e controversi della trasformazione digitale globale. Finché il dibattito restava confinato nei laboratori universitari o tra le pagine patinate delle riviste scientifiche, la narrazione era rassicurante: un mondo in cui l’AI aiuta a decifrare la complessità della biologia, senza toccare i nervi scoperti della geopolitica e del mercato. Poi è arrivata Biomap, una creatura sino-hongkonghese co-fondata da Robin Li Yanhong, patron di Baidu, che ha deciso di rovesciare il tavolo. In pochi anni ha costruito una piattaforma che oggi dichiara apertamente di aver superato AlphaFold, la creatura di DeepMind e Alphabet, non in teoria accademica ma nella commercializzazione concreta di modelli AI per la scoperta di farmaci.
Quest’anno segna il cinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche formali tra la Cina e l’Unione Europea, nonché il venticinquesimo della fondazione della Camera di Commercio dell’Unione Europea in Cina. Un traguardo che, anziché celebrare una storia di cooperazione, evidenzia la distanza crescente tra due giganti tecnologici, ora più rivali che partner.
Nel 1978, mentre la Cina emergeva dalle rovine della Rivoluzione Culturale, una delegazione di alto livello intraprendeva un tour di 36 giorni in Europa occidentale. Visitando 25 città in cinque paesi, tra cui Francia e Germania Ovest, gli ufficiali cinesi constatarono un ritardo di almeno venti anni in scienza, tecnologia e industria. Un divario che sembrava colmabile solo con un massiccio trasferimento tecnologico dall’Occidente.
La Cina non gioca più in difesa. Xiaomi ha deciso che l’era delle mezze misure è finita e con il lancio della serie 17 lo ha dimostrato con un gesto teatrale: saltare direttamente dalla generazione 15 alla 17, come se la 16 non fosse mai esistita. Una scelta che suona quasi come un dispetto a Cupertino, arrivata appena due settimane prima con i suoi iPhone 17 e convinta che il palcoscenico globale le appartenesse di diritto.
Quando Alibaba annuncia un “leading open-source deep research agent” e lo mette in produzione dentro Amap e Tongyi FaRui, non sta semplicemente rilasciando un’altra feature carina. Sta gridando al mondo: possiamo fare quello che fa OpenAI, ma con meno parametri, meno costi e più efficienza. È la solita partita del soft power digitale, solo che stavolta la posta in gioco non è l’e-commerce o il cloud, ma la capacità di costruire sistemi cognitivi scalabili che ridefiniscono la ricerca e la conoscenza.
Per decenni, gli osservatori occidentali hanno deriso la crescita tecnologica della Cina come imitativa: una costruzione basata su sussidi, copiature e appropriazione di proprietà intellettuale. Oggi quel racconto appare obsoleto. La Cina non solo compete, ma innova su più fronti, dall’industria dei veicoli elettrici all’intelligenza artificiale, fino a dimostrazioni militari che segnano un punto di svolta nel potere globale. Il 3 settembre, la parata militare a Pechino ha tolto ogni dubbio: le forze armate cinesi ora mostrano capacità tecnologiche avanzate che non possono più essere ignorate.
C’è qualcosa di rivelatore nell’ultimo vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO), il più grande di sempre, appena conclusosi a Tientsin: Xi Jinping ha parlato di intelligenza artificiale non come arma di competizione, ma come strumento di cooperazione. Un messaggio che, a prima vista, sembra quasi in controtendenza rispetto alla narrativa dominante fatta di gare tecnologiche, supremacy e paure esistenziali. Eppure, è proprio qui che si coglie la strategia di Pechino: usare l’AI non solo come tecnologia, ma come linguaggio politico.
Hai letto bene. Il Consiglio di Stato cinese ha fissato un obiettivo che suona come un ultimatum: entro il 2027 il 70 per cento della popolazione, cioè quasi un miliardo di persone, dovrà utilizzare terminali smart di nuova generazione, agenti intelligenti e applicazioni basate su intelligenza artificiale. Nel gergo di Pechino questo significa penetrazione AI in Cina, un concetto che non lascia spazio a esitazioni. O sei parte della trasformazione o resti escluso.
Ma l’ambizione non si ferma qui. Entro il 2030 la quota di adozione dovrebbe salire al 90 per cento, con l’obiettivo dichiarato di costruire entro il 2035 una società intelligente e un’economia pienamente basata su sistemi AI. Si tratta di una visione che non contempla gradualismi. È una tabella di marcia scandita da date, numeri e obblighi. Nessun Occidente, né Stati Uniti né Unione Europea, si è mai spinto così oltre. Washington ha leggi sull’AI ma nessun vincolo di penetrazione. Bruxelles scrive regolamenti sui rischi. Pechino invece impone percentuali di adozione.
Il teatro geopolitico della tecnologia sembra ormai un palcoscenico da tragedia greca, con l’America a recitare il ruolo del protagonista burbero che decide chi può accedere al fuoco sacro dell’intelligenza artificiale. Jensen Huang, il CEO di Nvidia con la calma zen di un monaco che vede miliardi materializzarsi tra i transistor, ha dichiarato che le discussioni con la Casa Bianca per permettere la vendita in Cina di versioni “ridotte” dei chip Blackwell richiederanno tempo. In realtà, quando parla di tempo, Huang sembra riferirsi al ritmo degli equilibri politici più che ai cicli produttivi di TSMC. Perché il mercato cinese non è una semplice appendice, ma un bottino da 50 miliardi di dollari, una cifra che persino un impero come Nvidia non può permettersi di lasciare intatta nelle mani di altri.
Quando Apple decide di aprire un account su RedNote, la piattaforma che molti definiscono la versione cinese di Instagram, non sta semplicemente pubblicando un logo animato con un invito ai consumatori a condividere storie. Sta mettendo in scena un esperimento di sopravvivenza. È la mossa più recente di un gigante che in Cina non è più percepito come intoccabile, ma come un concorrente che arranca dietro i brand locali che dettano trend, prezzi e perfino narrative. In altre parole, Cupertino sta cercando di sembrare più giovane, più pop, più vicina a quell’audience che oggi compra un Honor o un Vivo senza la minima nostalgia per Steve Jobs.
Huawei ha appena lanciato un sasso nell’acqua immobile della corsa globale all’intelligenza artificiale, e l’onda che ne seguirà potrebbe non piacere a chi, oltreoceano, si è abituato a dettare le regole del gioco. Il nuovo Unified Cache Manager non è un chip, non è un’architettura hardware esotica, ma un algoritmo che sposta i dati fra HBM, DRAM e SSD con un’abilità chirurgica, massimizzando l’efficienza d’inferenza dei modelli AI di grande scala. Il paradosso è evidente: in un momento in cui il mondo corre a pagare prezzi stellari per ogni singolo gigabyte di memoria ad alta banda, Huawei risponde con software. Ed è qui che il messaggio strategico diventa pungente. Se non puoi avere il meglio dell’hardware, spremi fino all’ultima goccia quello che hai.
Trump non ha mai amato le mezze misure, ma questa volta sembra averne inventata una. L’idea di permettere a Nvidia di vendere alla Cina una versione depotenziata del chip AI Blackwell suona come un cocktail di calcolo politico, fiuto per l’affare e volontà di riscrivere le regole della diplomazia tecnologica. Un compromesso al 30-50 per cento della potenza originale, come se un’auto di lusso venisse consegnata con il limitatore inserito. La motivazione ufficiale? Gestire il rischio tecnologico e la sicurezza nazionale. La realtà, come sempre, è più torbida.
Questo non è un semplice annuncio industriale. È un’operazione chirurgica dentro la supply chain globale dell’intelligenza artificiale, con Washington che improvvisamente si atteggia a broker delle performance dei chip. La Cina vuole capacità computazionale, e non da oggi. Gli Stati Uniti vogliono risorse strategiche e vantaggi commerciali. E nel mezzo c’è Jensen Huang, CEO di Nvidia, costretto a un balletto diplomatico in cui ogni passo costa miliardi e ogni sorriso può valere una licenza di esportazione. Il paradosso è che la Casa Bianca non sta bloccando del tutto l’export, ma lo sta monetizzando.

Non capita tutti i giorni che un gigante del chip come Nvidia si ritrovi al centro di un terremoto di fiducia da parte di uno dei mercati più ambiti al mondo. La storia dell’H20, il processore di intelligenza artificiale “su misura” per la Cina, è l’ennesimo esempio di come la tecnologia oggi sia una partita geopolitica dove il sospetto domina più della logica. Nvidia, dopo aver ottenuto il via libera da Washington per esportare l’H20 in Cina pagando il 15 per cento dei ricavi allo Stato americano, si trova accusata dai media statali cinesi di aver inserito “back door” di sorveglianza. Il tutto mentre il colosso rassicura che non ci sono “kill switch” o spyware nei suoi chip, a dimostrazione che la fiducia in ambito tecnologico è ormai un bene più fragile del silicio stesso.
Il paradosso è bello e grosso. Da un lato, Nvidia accetta di versare una percentuale sostanziosa delle sue vendite alla Casa Bianca, come pegno di un accordo fragile e geopoliticamente carico. Dall’altro, Pechino risponde con una campagna di demonizzazione che mette sotto accusa proprio il chip che dovrebbe alimentare il futuro dell’AI cinese. Il commento su Yuyuan Tantian di China Central Television è impietoso: “Un chip né avanzato, né sicuro, né rispettoso dell’ambiente, è semplicemente un prodotto da rifiutare”. Ironia della sorte, la strategia di Nvidia si ritorce contro, come un moderno gioco di specchi in cui ogni mossa è monitorata da occhi governativi. Una curiosità storica emerge dal passato, quando nel 1992 si parlava già di tentativi americani di inserire back door nei chip per motivi di sicurezza nazionale. Oggi, quella paranoia diventa mainstream, soprattutto nel contesto della guerra commerciale e tecnologica Usa-Cina.
Un accordo “altamente insolito” sta scuotendo il mondo dell’intelligenza artificiale e dei semiconduttori. Nvidia e AMD, due colossi della produzione di chip AI, hanno accettato di cedere una fetta dei ricavi delle loro vendite in Cina al governo statunitense. Non è uno scherzo, né una mera questione di cortesia commerciale: il Financial Times ha svelato come Nvidia condividerà il 15% dei profitti derivanti dalle vendite dei suoi chip H20 in Cina, mentre AMD applicherà la stessa percentuale sulle entrate dei chip MI308. Un modo piuttosto diretto per mettere il governo americano dentro al business della tecnologia made in USA esportata ai rivali geopolitici.
C’è qualcosa di profondamente ironico nel vedere Pechino presentare un piano globale per la governance dell’intelligenza artificiale proprio mentre Washington si affanna a mettere in mostra la propria strategia di deregulation. Il 26 luglio, il Premier Li Qiang ha lanciato un piano che sembra, in superficie, la solita fiera di buone intenzioni: cooperazione internazionale, sostenibilità verde, inclusività e sicurezza. Tutto già sentito, scritto, decantato, persino nelle dichiarazioni ufficiali del Partito Comunista cinese e negli ultimi discorsi di Xi Jinping. La differenza? È nei dettagli, nelle sfumature linguistiche e nei piccoli accenti politici che i media mainstream, con la loro fretta di fare confronti americani-cinesi, trascurano o banalizzano.
Se pensate che il settore dei videogiochi in Cina sia già saturo o abbia raggiunto un plateau evolutivo, è il momento di aggiornare il vostro software mentale. A giudicare dai segnali provenienti da ChinaJoy, la più grande fiera del digitale asiatico, la nuova corsa all’oro si chiama intelligenza artificiale. E non è una corsa qualsiasi. È un’accelerazione a curvatura che sta riscrivendo, byte dopo byte, l’intero processo creativo, produttivo e commerciale dell’industria videoludica cinese.
Quando Nvidia dichiara che i suoi chip H20 non contengono “back door”, in realtà sta facendo una promessa tanto scontata quanto difficile da digerire per Pechino. La recente convocazione dell’azienda da parte della Cyberspace Administration of China (CAC) segna un altro capitolo della sfida tecnologica e geopolitica più intricata del nostro tempo. Non si tratta solo di un dubbio tecnico, ma di un gioco di potere che coinvolge l’intelligence, il commercio globale e la sovranità digitale. Chi crede che i chip siano semplicemente circuiti e transistor dovrebbe ripensarci: oggi rappresentano i nervi di un sistema nervoso economico e politico globale.
Mentre Washington canta l’inno dell’“American-made AI” con un patriottismo da Silicon Valley che profuma più di marketing che di governance, Pechino decide di giocare un’altra partita. E lo fa con un documento rilasciato sabato scorso: il “Global AI Governance Initiative Action Plan”, che suona più come una proposta di leadership globale mascherata da collaborazione internazionale. Non è un piano, è una sfida a chi detta le regole del nuovo ordine cognitivo globale.
Il paradosso è servito, e come sempre la Silicon Valley e Shenzhen giocano una partita a scacchi con regole che cambiano ogni giorno. Gli Stati Uniti vietano l’export delle GPU Nvidia H100 e A100 in Cina, e la Cina risponde con un sorriso sornione, trasformando l’embargo in un’opportunità di business. A Shenzhen, cuore pulsante del tech cinese, una dozzina di aziende boutique sta facendo fortuna riparando proprio quei chip che ufficialmente non dovrebbero neanche trovarsi nel Paese. È l’ironia della geopolitica tecnologica: vieti un prodotto e ne moltiplichi il valore di mercato, creando un’industria parallela che prospera nell’ombra ma con margini da far impallidire i listini di Wall Street.
Amazon Web Services chiude i battenti a Shanghai e non è solo una questione di numeri. È il rumore sordo di una ritirata strategica mascherata da “decisione aziendale ponderata”. Il colosso americano ha spento la luce sul suo AI Shanghai Lablet, laboratorio nato sette anni fa per esplorare il deep learning sui grafi e incassare ricavi stellari grazie al Deep Graph Library. Una creatura che, secondo il suo chief scientist Wang Minjie, ha portato quasi un miliardo di dollari all’e-commerce di Amazon. Un dettaglio che brucia ancora di più, perché chiudere un laboratorio che genera quel tipo di valore non è un taglio, è un messaggio. E il messaggio è chiaro: l’America non gioca più la partita dell’AI in Cina, almeno non sul campo aperto della ricerca.
L’intelligenza artificiale che ridefinisce la diagnosi precoce della depressione a Hong Kong AniTech

Diagnosticare la depressione prima che diventi un’emergenza non è mai stato così urgente, soprattutto in una metropoli come Hong Kong, dove le pressioni sociali e il tasso di suicidi raggiungono livelli da far tremare i polsi. Mentre i legislatori discutono e le solite campagne di sensibilizzazione arrancano a livello istituzionale, una start-up nata nel cuore accademico della città sta puntando dritto al cuore del problema con una tecnologia capace di intercettare il disagio mentale prima che diventi tragedia. Si chiama AniTech, e non è la solita promessa da pitch su un palco pieno di powerpoint.
Ci voleva la Prof.ssa Carrozza, a Montecitorio, per ricordare (IA e Parlamento) che i robot non sono più giocattoli da laboratorio e che la visione di Elon Musk, con i suoi Optimus firmati Tesla, è ormai solo un pezzo del puzzle. Ma la vera partita non si gioca in California, bensì a Shenzhen, dove un umanoide ha appena compiuto un gesto che vale più di mille slogan: ha cambiato la propria batteria, da solo, senza un dito umano a intervenire.
Il Walker S2 di UBTech Robotics non è un prototipo goffo da fiera tecnologica, è un lavoratore instancabile che può teoricamente funzionare 24 ore su 24. Tre minuti per sostituire l’energia vitale, batterie che si inseriscono come chiavette USB e un algoritmo di gestione dell’autonomia che decide quando e come effettuare il cambio. Sembra banale? Non lo è. È la differenza tra un robot da esposizione e un asset industriale che può sostituire interi turni umani senza interruzioni.
Uno sguardo freddo su documento presenato a ISCA 2025 (52nd Annual International Symposium on Computer Architecture, Tokyo Japan, June 21 – 25, 2025) di DeepSeek‑V3 rivela un mix esplosivo di ingegneria hardcore e visioni che rasentano la fantascienza. Il modello da 671 miliardi di parametri gira su “solo” 2 048 GPU NVIDIA H800, sfruttando Multi‑Head Latent Attention per ridurre l’occupazione dei KV cache a 70 KB per token, Mixture‑of‑Experts che attiva solo 37B parametri per token (circa 5 % del totale) e precisione FP8 che dimezza tempi e costi. La topologia “Multi‑Plane Network” ottimizza congestione e latenza nel training, placcando forti colpi al muro hardware‑model co‑design arXiv.
C’è qualcosa di ironico nel vedere il Paese che ha trasformato l’e-commerce in un culto di massa rimanere indietro proprio nella partita degli ai agents, il nuovo totem tecnologico che promette di trasformare le aziende in organismi semi-autonomi. È come se la Cina avesse costruito l’autostrada più grande del mondo e poi si fosse dimenticata di comprare le auto. La fotografia più crudele arriva dai numeri, sempre cinici e sempre impietosi: nel 2024 gli Stati Uniti contavano 100 milioni di utenti di ai agents, pari a un tasso di penetrazione del 40 per cento, mentre la Cina, con i suoi 250 milioni di utenti, arrancava a un modesto 17,7 per cento di adozione. Un controsenso apparente che in realtà è la prova della differenza strutturale tra hype e infrastruttura.
L’arte della diplomazia tecnologica si sta riscrivendo sotto i nostri occhi con un sipario fatto di chip, politica e promesse digitali. Wang Wentao, ministro del commercio cinese, e Jensen Huang, il CEO taiwanese-americano di Nvidia, hanno stretto una mano che vale più di un semplice accordo commerciale: è una sfida lanciata a un futuro in cui l’intelligenza artificiale sarà il campo di battaglia più ambito e controverso. Se vi aspettavate uno scontro frontale, vi sbagliate: l’incontro ha mostrato un pragmatismo raro, in un mondo diviso tra sanzioni e sospetti, tra protezionismo e apertura di mercato.
Jensen Huang è atterrato a Pechino con il sorriso di chi sa di avere vinto almeno un round nella guerra tecnologica più costosa del decennio. Il fondatore e CEO di Nvidia, vestito con la sua solita giacca di pelle da rockstar dell’hardware, non è venuto per stringere mani e scattare foto, ma per riaffermare un principio quasi banale nel mondo reale ma rivoluzionario nel teatro geopolitico dell’intelligenza artificiale: “il mercato cinese non si può ignorare”. Lo ha detto, più o meno, tra un meeting con i funzionari governativi e un’apparizione alla China Council for the Promotion of International Trade. Solo che stavolta la frase non è retorica. È una minaccia sottile a Washington e un inchino strategico a Pechino.
Non fatevi ingannare dal nome dolciastro. Kimi K2 non è un simpatico cartone animato giapponese né una mascotte da caricare su TikTok. È un colosso di 1 trilione di parametri che cammina silenziosamente tra le linee di codice, pronto a stravolgere le gerarchie globali dell’intelligenza artificiale con un approccio che, fino a ieri, sembrava il dominio esclusivo delle elite della Silicon Valley. Moonshot AI, una start-up cinese con sede a Pechino e le tasche piene grazie ai finanziamenti di Alibaba, ha appena scagliato il suo nuovo mostro computazionale nel ring dell’open-source globale, e le onde d’urto si sentono già da Menlo Park a Bangalore.
Quando un’ex consulente di Accenture e un professore di sistemi complessi decidono di fondare una start-up sull’intelligenza artificiale per la scoperta di farmaci, di solito il risultato è un PowerPoint, qualche grafico in stile McKinsey, e un round seed da 2 milioni spesi in marketing. Ma IntelliGen AI, fondata a Hong Kong nel giugno 2024 da Ronald Sun e dal ricercatore Sun Siqi, sembra giocare su un piano diverso. Non solo perché si autoproclama rivale di DeepMind e del suo spin-off farmaceutico Isomorphic Labs, ma perché pretende di fare con la biologia ciò che AlphaFold ha già fatto: trasformare la ricerca scientifica in un problema di predizione computazionale. Solo che qui la posta in gioco non è più l’ordine degli amminoacidi, ma l’economia globale del farmaco.