Meta ha deciso di giocare la carta più affascinante e più rischiosa del momento: tradurre non solo le parole, ma le voci. Dopo averci abituato a feed infiniti, algoritmi onnipresenti e un metaverso che esiste più nei PowerPoint che nella realtà, ora arriva l’intelligenza artificiale che clona la voce dei creator per renderla comprensibile in altre lingue, senza perdere timbro e tono originale. Non un semplice sottotitolo o un doppiaggio impersonale, ma un traduttore vocale che restituisce l’illusione di autenticità. In altre parole, se sei un creator di Los Angeles che parla inglese, un utente di Madrid potrà ascoltarti in spagnolo come se tu fossi realmente bilingue, con le labbra che si muovono sincronizzate. È la globalizzazione digitale che diventa performance teatrale.
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Il caso Meta è esploso con la precisione chirurgica di uno scoop che sa dove colpire. Non è stato un leak qualunque, ma la rivelazione di un documento interno che sembra scritto da qualcuno che non ha mai sentito parlare di risk management o di reputazione aziendale. Quel testo, parte delle linee guida denominate “GenAI: Content Risk Standards”, autorizzava i chatbot della compagnia a intrattenere “conversazioni romantiche o sensuali con un bambino”. Una frase che, letta fuori contesto, sarebbe già tossica, ma che nel contesto di un colosso tecnologico quotato al Nasdaq diventa puro materiale radioattivo. E non parliamo di un caso isolato, perché nello stesso documento si apriva la porta a generare informazioni mediche false e persino ad assecondare affermazioni razziste sull’intelligenza delle persone nere rispetto a quelle bianche. In sintesi, un crash test emotivo e reputazionale travestito da policy aziendale.

Meta ha appena inserito Robby Starbuck come consulente per “affrontare” il bias ideologico e politico della sua AI, ma la storia è più succosa di quanto sembri in superficie. Non è il classico annuncio corporate sulla trasparenza. Qui abbiamo un attivista conservatore che ha già messo in ginocchio programmi di Diversity, Equity e Inclusion in aziende come Tractor Supply, John Deere e Harley-Davidson, e che adesso ottiene un ruolo ufficiale nella definizione di come un colosso tecnologico calibra il cervello delle proprie macchine conversazionali. L’innesco è stato un errore di Meta AI che lo aveva collegato falsamente all’assalto del 6 gennaio e a QAnon, errore amplificato sui social da un dealer Harley. Da lì, un’azione legale, un accordo e una narrativa che si allinea perfettamente con l’ordine esecutivo di Trump per rendere l’AI “meno woke”.

L’era dell’open-source nell’intelligenza artificiale, quella mitologica utopia da campus californiano in cui condividere il codice significava accelerare il progresso collettivo, sta ufficialmente mostrando le crepe. Meta, storica paladina dell’open-source AI con la sua famiglia LLaMA, ha deciso di rallentare. Zuckerberg, un tempo evangelista della trasparenza algoritmica, oggi predica cautela, sicurezza e selettività. Tradotto: meno open, più chiuso, più controllato. E nel frattempo, l’altra metà del mondo quella che si affaccia dalla Cina corre nella direzione opposta, scalando la montagna dell’intelligenza artificiale open-source a colpi di modelli in versione gladiatore darwiniano.

Il capitalismo ha trovato il suo nuovo culto. Non è più il metaverso, né la blockchain o la realtà aumentata. È l’intelligenza artificiale generativa, e più precisamente il mito della superintelligenza, quella divinità algoritmica che promette di superare l’uomo in tutto, dal pensiero critico al sarcasmo. Microsoft, Meta, Alphabet, Amazon e gli altri soliti noti della Silicon Valley non si stanno limitando a giocare la partita. Stanno comprando il campo, gli arbitri e persino le telecamere del VAR. Il mercato, per ora, applaude. I bilanci reggono, i margini volano, e se serve spendere 400 miliardi di dollari l’anno per dominare il futuro, ben venga. Perché in questa guerra il primo che esita è morto.
Meta non vuole più battere ChatGPT. Ha smesso di provarci, punto. Non lo diranno apertamente, ma il tono e la direzione del manifesto di Mark Zuckerberg sulla “superintelligenza personale” gridano proprio questo: basta inseguire OpenAI, si torna a casa, nel regno del feed infinito e delle storie sponsorizzate. La strategia non è più quella di sostituire il lavoro umano con un assistente superproduttivo, ma di occupare il tempo libero che quell’assistente libererà. Ovvero, Meta vuole essere la risposta alla domanda: “e adesso che ho finito tutto, cosa faccio?”. Una visione tanto cinica quanto perfettamente in linea con il modello di business che l’ha resa uno dei colossi più controversi della Silicon Valley.

Microsoft e Meta ballano sul bordo del vulcano, e lo fanno con il sorriso stampato in faccia. Le trimestrali pubblicate mercoledì sono state da standing ovation, almeno per chi guarda solo la superficie. I numeri sono solidi, le reazioni di Wall Street sono state euforiche: +9% per il titolo Microsoft, +11,7% per Meta nelle contrattazioni after-hours. Ma sotto la patina dei profitti c’è un dato che dovrebbe far alzare qualche sopracciglio: il costo dell’intelligenza artificiale sta esplodendo. E questa corsa all’oro algoritmico ha un prezzo che non tutti potranno permettersi di pagare.

Durante la call sui risultati del secondo trimestre, Meta ha recitato il suo ennesimo atto nel grande teatro dell’innovazione. Palco virtuale, attori ben allenati, tono rassicurante, qualche accenno di visione strategica e un nome ripetuto fino allo sfinimento: intelligenza artificiale. Ma dietro le slide patinate e i numeri ben impaginati, si nasconde una realtà più interessante: Meta non ha ancora una strategia chiara su come monetizzare davvero l’intelligenza artificiale. Per ora, si accontenta di usarla come turbo per un motore pubblicitario che ha già percorso qualche miliardo di chilometri.

Mark Zuckerberg, poche ore prima della trimestrale di Meta, ha deciso di scavalcare la ritualità del corporate talk e pubblicare una lettera aperta minimalista, in puro testo, senza fronzoli visivi ma con una carica visionaria che pare uscita da un incrocio tra Ray Kurzweil e un pitch da venture capitalist sotto caffeina. Il punto? Superintelligenza personale per tutti. Ovvero intelligenza artificiale generalista, AGI se preferite, declinata non solo come modello cloud-based all’interno di server farm iperottimizzate, ma come assistente personale, ultra-smart, che vive… in un paio di occhiali.

Non è fantascienza ma l’ennesima dimostrazione che il XXI secolo sarà alimentato non da democrazie ma da data center affamati di elettroni. Il Wyoming, stato noto per le praterie, i rodei e una densità abitativa più vicina alla Mongolia che a Manhattan, sta per essere risucchiato nel vortice dell’intelligenza artificiale. La notizia è di quelle che fanno saltare sulla sedia gli addetti ai lavori e i romantici delle rinnovabili: un campus di data center AI da 1.8 gigawatt, con potenziale espansione fino a 10 GW, sarà costruito vicino a Cheyenne. Per capirci: 1 GW può alimentare un milione di case. L’intera popolazione del Wyoming non arriva a 600.000 abitanti. Fate i conti.

La notizia è passata sotto il radar, ma merita un faro acceso. Meta sta sperimentando colloqui di lavoro “AI-enabled”, in cui i candidati a ruoli di ingegneria software potranno usare un assistente basato su intelligenza artificiale durante i test di coding. Sì, avete letto bene. Il colosso che ha costruito imperi pubblicitari sul deep learning ora ti invita ufficialmente a portarti l’AI in tasca anche al colloquio. Ma attenzione, perché sotto questa mossa apparentemente inclusiva e progressista si nasconde qualcosa di ben più profondo, e potenzialmente disruptive. Una mutazione genetica del lavoro tecnico.
Dunque, l’idea che un candidato possa contare su un copilota AI in tempo reale durante un’intervista di lavoro suona come un cortocircuito concettuale. Negli ultimi anni, le big tech hanno costruito intere fortezze HR sulla valutazione delle capacità individuali senza AI. Ora Meta, come se niente fosse, sembra voler riscrivere le regole del gioco. Il comunicato è chiaro: “Stiamo testando come fornire questi strumenti agli ingegneri anche durante i colloqui”. E qui si aprono almeno tre scenari interessanti, tra tensione narrativa, strategia industriale e visione antropologica del lavoro.

C’è una frase che nessuno a Menlo Park vuole sentire ripetere a voce alta, ma che a Bruxelles cominciano a sussurrare come un mantra: “Il futuro dell’intelligenza artificiale passerà anche dal controllo politico”. E non è un’iperbole da burocrate con troppi caffè. L’EU AI Act non è più soltanto un documento tecnico, è diventato un campo di battaglia culturale e strategico, e il nuovo Codice di Pratica per i modelli di intelligenza artificiale di uso generale sta rapidamente trasformandosi nel simbolo di chi sta scegliendo di collaborare e di chi vuole continuare a giocare da anarchico californiano.
Scale AI licenzia il 14% del personale un mese dopo l’accordo miliardario con Meta. La notizia è passata come un aggiornamento di cronaca, ma in realtà è un manifesto del futuro dell’intelligenza artificiale. Chi pensa ancora che l’etichettatura dei dati sia il motore eterno dei modelli di machine learning vive in un universo parallelo. Alexandr Wang, CEO e volto da poster della Silicon Valley, non sta piangendo sulle scrivanie vuote dei 200 dipendenti licenziati. Sta ridisegnando il modello di business prima che la curva del valore scenda a picco.
Non è più solo una corsa. È un’orgia di silicio, corrente elettrica e narcisismo computazionale. Mentre OpenAI si trastulla con la sua Stargate da film di fantascienza di serie B e Google DeepMind cerca disperatamente di sembrare ancora rilevante, Meta cala l’asso Hyperion: un mostro da cinque gigawatt che si estenderà quanto Manhattan. Cinque gigawatt non sono una cifra, sono una dichiarazione di guerra. A chi? A tutti: concorrenti, governi, cittadini, pianeta. L’intelligenza artificiale, nel 2025, non si addestra, si alimenta. E si alimenta come un dio antico, con sacrifici umani inclusi.

Siamo passati dal “like” alla voce umana sintetica nel tempo di uno scroll su Threads. Meta, dopo aver flirtato con ogni pezzo di intelligenza artificiale in circolazione, ha finalmente messo la firma su Play AI, una startup che sussurrava all’orecchio delle macchine. Non è solo una notizia, è una dichiarazione di guerra all’anonimato delle AI. La voce è il nuovo volto, e Meta lo sa fin troppo bene.
Secondo Bloomberg, che ha ricevuto conferma direttamente da un portavoce aziendale, tutta la squadra di Play AI entrerà a far parte dell’ecosistema Zuckerbergiano già dalla prossima settimana. Nessun dettaglio sui soldi – e quando Meta non parla di cifre, di solito vuol dire che non erano noccioline. In un memo interno, l’azienda ha definito il lavoro di Play AI “perfettamente allineato” con la roadmap strategica in ambiti come AI Characters, Meta AI, dispositivi wearable e creazione di contenuti audio. Come dire: ci serve una voce credibile per gli avatar che ci vendono il Metaverso, e non possiamo più affidarci a Google Translate.

Sorpresa. Non da poco, e non da tutti. Xiaomi, la multinazionale cinese delle meraviglie elettroniche, è appena entrata a gamba tesa nel mercato degli occhiali intelligenti. Un settore che molti definiscono ancora di nicchia, ma che in realtà è il nuovo terreno di scontro per chi vuole presidiare il futuro del computing personale. Una guerra silenziosa fatta di microchip, lenti e assistenti vocali, dove chi ha il controllo dell’ecosistema può riscrivere le regole del gioco. Sì, perché qui non si vendono solo gadget: si piantano bandiere nel campo minato dell’intelligenza artificiale indossabile.

Meta ha appena ingoiato un boccone da 3,5 miliardi di dollari di EssilorLuxottica, il colosso mondiale degli occhiali proprietario di marchi iconici come Ray-Ban e Oakley, assicurandosi una quota del 3% proprio mentre spinge sull’acceleratore degli smart glasses potenziati dall’intelligenza artificiale. Questo non è un semplice investimento, ma un chiaro segnale di guerra: Meta sta giocando una partita hardware per scrollarsi di dosso il giogo di Apple e Google, i signori incontrastati del mobile.

C’era una volta un nerd, cresciuto a pane, Harvard e codice C++, che decise di costruire un impero. Poi però arrivò l’intelligenza artificiale, e tutto andò storto. O quasi. Ora quello stesso nerd, noto ai più come Mark Zuckerberg, ha deciso che Meta deve smettere di giocare a rincorrere gli altri e iniziare a sparare fuoco AI come un Terminator in preda a un burnout da hype tecnologico. Il risultato? Meta Superintelligence Labs. Ovvero: un nome che promette superpoteri, ma che per ora sembra solo il trailer di un’epopea distopica.
In effetti, quando si afferma senza battere ciglio che una manciata di superstar della Silicon Valley riuscirà a trasformare una balena arenata come Meta in un velociraptor digitale, sarebbe utile ricordare che i velociraptor sono estinti. La verità, non detta ma scritta tra le righe, è che Zuckerberg sta cercando disperatamente di rifondare il suo impero con la magia nera dei large language models, dopo aver bruciato miliardi nel metaverso e lanciato Llama 4 come se fosse un missile… che ha fallito il decollo.

Meta ha appena alzato l’asticella: punta a raccogliere 29 miliardi di dollari da investitori privati per alimentare la sua corsa all’intelligenza artificiale, riprogettando grossi data center negli Stati Uniti. Non è un sogno utopico, bensì la mossa furba di un gigante tecnologico che vuole evitare di caricare troppo il suo bilancio con un’enorme palla al piede di debiti e investimenti in infrastrutture. L’operazione si articola in 3 miliardi sotto forma di equity e 26 miliardi in debito strutturato, distribuito tra colossi del private credit come Apollo, KKR, Brookfield, Carlyle e PIMCO, con l’assistenza di Morgan Stanley per ritagliarsi un prestito “tradable” – cioè facilmente scambiabile sul mercato secondario.
Immaginatevi Zuckerberg come un generale sul campo AI, brandendo l’ennesima calcolatrice futuristica, mentre tenta di rimediare agli scarsi risultati del Llama 4 e al ritardo del modello “Behemoth”. Se aggiungete la recente acquisizione del CEO di Scale AI, Alexandr Wang, nella sua task force super-intelligenza, capite che non si tratta di una semplice maratona: è una rivoluzione militare dell’infrastruttura digitale.

Sam Altman parla di “100 milioni di dollari” come se stesse ordinando un caffè lungo. Poi dice che Meta li sta offrendo come bonus di assunzione per rubargli i talenti, e il CTO di Meta, Andrew Bosworth, risponde con un sorriso da pokerista che ha appena visto l’avversario bluffare male. “Sam esagera, e lo sa”, dice. Ma non nega che OpenAI stia perdendo pezzi grossi a favore della squadra superintelligence di Menlo Park. Benvenuti nell’era del capitalismo neuronale, dove il valore di un cervello si misura in stock option, NDA e un certo grado di paranoia.

Meta ha appena trasformato la fuga dei cervelli in un’escalation da manuale di spionaggio tecnologico senza veli. Quattro pezzi da novanta dell’intelligenza artificiale, compreso il trio fondatore dell’ufficio OpenAI di Zurigo, hanno fatto le valigie e accettato l’invito a nozze di Zuckerberg, che nel frattempo sembra aver abbandonato le formule diplomatiche per passare direttamente a un approccio «buca il cuore e prendi il cervello».
Lucas Beyer, Alexander Kolesnikov e Xiaohua Zhai, nomi che per chi mastica AI sono come rockstar della ricerca, non solo stanno facendo il passaggio da OpenAI a Meta, ma hanno praticamente disegnato la mappa dell’innovazione in Europa per OpenAI fino a ieri. A questo si aggiunge Trapit Bansal, l’architetto dietro il motore di ragionamento o1, quel modello di inferenza che fino a poco fa sembrava il santo graal interno di OpenAI, oggi una pedina mossa in questo gioco di scacchi a scacchi tra i colossi dell’AI.

Bloomberg Quando Zuckerberg mette mano al portafoglio, non è mai per comprare un’app per le ricette vegane. È per accaparrarsi cervelli, tecnologia e tempo — le vere monete della nuova economia. E l’ultimo oggetto del desiderio di Meta, PlayAI, è un boccone piccolo ma strategico: una startup californiana che sta addestrando intelligenze artificiali a parlare come noi, con inflessione, intonazione e quel pizzico di emotività finta che suona fin troppo reale. E no, non è per migliorare il customer service.

Una corte federale ha appena fatto quello che metà della Silicon Valley sperava e l’altra metà temeva: mettere ordine nella giungla legale dell’addestramento dei modelli linguistici, o quanto meno fingere di farlo. Il giudice Vince Chhabria, in un’ordinanza che molti definirebbero tecnicamente provvisoria ma culturalmente devastante, ha assolto Meta dalle accuse di tredici autori secondo cui l’azienda avrebbe usato illegalmente i loro libri per addestrare LLaMA. Ma non chiamatela vittoria: è più simile a un pareggio tecnico mascherato da gol al novantesimo.

Nel grande reality digitale dove ogni messaggio è una potenziale traccia d’accusa, WhatsApp ha deciso di passare da semplice spettatore a narratore automatizzato. Lo fa servendosi di Meta AI, la creatura artificiale di Menlo Park, che ora può entrare con discrezione si fa per dire nei tuoi gruppi di famiglia, nei thread di lavoro, nei gruppi genitori-scuola e pure nella chat con tua cugina logorroica, per riassumere tutto ciò che ti sei perso. A colpi di bullet points. Sì, come nei meeting aziendali più spietati. Ma senza la possibilità di difenderti.

Nel mondo sempre più confuso e saturato dei wearable, dove ogni pezzo di plastica con Bluetooth pretende di essere rivoluzionario, Meta torna a far rumore. Ma non lo fa con un visore VR imbarazzante da indossare in pubblico o con un social network in declino, bensì con un paio di occhiali da sole. O meglio, da smart-gladiatori urbani. Il nome è Oakley Meta HSTN (si pronuncia “how-stuhn”, ma non si capisce bene perché), un esperimento di eleganza post-cibernetica e tecnologia infilata nella montatura di uno dei brand più testosteronici degli ultimi decenni.
Questi nuovi occhiali, a metà tra cyborg fashion e gadget per atleti con sindrome da multitasking, costano 499 dollari nella versione limitata con lenti dorate e dettagli da rapstar post-moderna. Disponibili dal 11 luglio in pre-ordine, incarnano la nuova fase del piano Meta: colonizzare la nostra vista, trasformando ogni sguardo in un’interazione AI-driven.

Meta potrebbe stanziare oltre 1 miliardo di dollari per acquisire NFDG, il fondo VC targato Nat Friedman e Daniel Gross, un nome che suona come un mantra nei salotti del deep tech. Ma cosa si cela dietro questo possibile mega-deal da Silicon Valley? Immergiamoci senza paura.
A quanto riporta Reuters, Meta non solo sta sfiorando un’intesa con il ex‑CEO di GitHub Nat Friedman e il suo sodale Daniel Gross per farli entrare nel suo team AI, ma sta anche valutando l’acquisizione di parte del loro fondo NFDG – un investimento potenzialmente superiore a 1 miliardo di dollari . Sullo sfondo c’è una strategia ben più ampia: dopo un mastodontico investimento da 14,8 miliardi di dollari in Scale AI e l’assunzione del suo CEO Alexandr Wang per creare un’unità di superintelligenza, Meta punta tutto sull’influenza e la credibilità che Friedman e Gross portano nel panorama AI

Quando l’intelligenza artificiale smette di fare promesse e comincia a mostrare il conto
C’è qualcosa di stranamente lirico – e brutalmente finanziario – nel vedere Meta sborsare quindici miliardi di dollari per Scale AI, senza nemmeno pretendere diritti di voto. È come se Zuckerberg, con la serenità di un imperatore bizantino, avesse deciso che in fondo la democrazia nelle startup non serve. Oppure sa qualcosa che gli altri ignorano. Tipo che Scale AI è la chiave per qualcosa di ben più grosso. Oppure che siamo nel mezzo della più grande bolla tech dal 1999, ma stavolta alimentata da chip e miraggi quantistici.

OpenAI ha deciso di interrompere la collaborazione con Scale AI, una startup specializzata nell’etichettatura dei dati, a seguito dell’investimento di Meta Platforms Inc., che ha acquisito una partecipazione del 49% nella società per 14,3 miliardi di dollari. La decisione segna un punto di svolta significativo nel panorama competitivo dell’intelligenza artificiale, sollevando interrogativi sulla neutralità dei fornitori di dati e sulla sicurezza delle informazioni sensibili.

L’Europa, nel maggio 2025, si è trovata di fronte a uno specchio oscuro. Lì dentro, riflessi, 269 milioni di volti Instagram e 260 milioni di vite Facebook. O almeno, i loro avatar digitali. Poi, lentamente, qualcosa si è mosso: una finestra pop-up, un modulo di opposizione, una scelta possibile. E poco più dell’11% su Instagram, e meno del 9% su Facebook, ha detto no. No al fatto che i propri post, like, selfie, caption, passioni e silenzi venissero usati per allenare i Large Language Model (LLM) di Meta.
Eppure, il dato che scombina tutto è un altro (source DPC): il 78% di chi ha visto quel modulo, lo ha firmato. Lo ha compilato, inviato, sbarrato. Come dire: sì, se mi accorgo che mi stai frugando nei ricordi per addestrare una macchina, non ti do il permesso.

Non è una semplice acquisizione, e nemmeno una partnership. È un’iniezione di potere. Con 14,3 miliardi di dollari, Meta si è comprata metà dell’anima (e il 49% delle azioni) di Scale AI, la startup fondata dal prodigio Alexandr Wang. Non solo dati: con questo colpo da maestro, Zuckerberg si porta in casa il motore stesso del futuro dell’intelligenza artificiale generalista, l’AGI. Quella vera, quella che – per ora – nessuno ha ancora osato dichiarare davvero di voler costruire, almeno non a voce alta e senza ironia.

Se cercate il fondo del barile dell’intelligenza artificiale, non è tra i robot che sbagliano a giocare a scacchi. È molto più in basso. Più precisamente: nelle immagini generate da app come “CrushAI” pubblicizzate su Facebook, Instagram, Messenger e Threads, dove l’obiettivo non è risolvere problemi ma spogliare persone – spesso donne e minorenni – senza alcun consenso. È pornografia algoritmica con il bonus dell’anonimato e il prezzo scontato della morale.

C’è un certo romanticismo tecnologico nel gesto di Mark Zuckerberg: pagare 14,3 miliardi di dollari per il 49% di Scale AI senza neanche volerla tutta, come se la posta in gioco non fosse l’azienda ma il cervello che la guida. Alexandr Wang, enfant prodige dell’intelligenza artificiale, CEO di Scale e prodigioso miliardario a 21 anni, passa ora sotto le insegne blu di Meta. Ma lo fa con un piede ancora nella sua creatura. Meta prende metà tavolo, ma lascia al giovane Wang il comando del mazzo.
Meta Platforms ha appena sganciato una bomba, anche se lo stile è quello da laboratorio silenzioso e patinato. Il nome è V-JEPA 2. Sembra il titolo di un software di terz’ordine, ma è molto di più: è il nuovo modello di intelligenza artificiale lanciato da Menlo Park per spingere la sua visione dell’Advanced Machine Intelligence (AMI), un concetto tanto vago quanto ambizioso che promette — o minaccia — di trasformare ogni interazione uomo-macchina in una danza algoritmica tra causa ed effetto.


Se hai sempre sognato di trasformarti in un personaggio anime con occhi rosa fosforescente o vedere il tuo cane scavare una buca tra cactus viola in un deserto arancione (sì, arancione), allora Meta ha un regalo per te. Ma affrettati: è gratis solo per un “tempo limitato”. Il che, in gergo tecnologico, è una combinazione tossica tra “beta testing pubblico non dichiarato” e “prima ti faccio innamorare, poi ti metto l’abbonamento”.
Meta ha appena lanciato un nuovo strumento di video editing AI che consente di trasformare radicalmente i primi dieci secondi dei tuoi video. Sottolineiamo: dieci secondi. Come direbbe un regista indie sotto metanfetamina: “È tutta una questione di incipit”. I preset disponibili sono più di cinquanta, e funzionano esattamente come i filtri di Instagram, ma con ambizioni più grandi: ti cambiano lo sfondo, ti vestono in smoking digitale, ti truccano come un personaggio di un JRPG lisergico e ti proiettano in ambienti virtuali vagamente distopici. La parola chiave? Restyling video assistito da intelligenza artificiale. O meglio: travestimento post-moderno in 1080p.

C’è un momento, nella storia di ogni impero, in cui il suo sovrano sente che gli Dei stanno ridendo di lui. Mark Zuckerberg, dopo aver provato a reinventare il concetto di “mondo” con il Metaverso (fallendo nella realtà quanto lo ha fatto la Second Life del 2008), ha deciso che il futuro non è virtuale, ma cognitivo. Il nuovo feticcio della Silicon Valley si chiama AGI, intelligenza artificiale generale. E per raggiungerla, Meta ha deciso di firmare quello che è, secondo The Information, il più grosso assegno mai staccato fuori dalle proprie mura: quasi 15 miliardi di dollari per acquisire il 49% di Scale AI. Tradotto: Zuckerberg si compra quasi metà della benzina che alimenta l’industria dell’AI globale.

Immagina che Mark Zuckerberg si presenti a un summit militare con una versione “patriottica” del suo chatbot Llama, addestrato non con meme di Instagram ma con scenari da guerra elettronica. Aggiungi a questo un assegno potenziale da oltre 10 miliardi di dollari per una startup che fino a ieri sistemava dataset come uno stagista ossessivo-compulsivo, e hai il quadro surreale — ma del tutto reale — di quello che sta succedendo tra Meta e Scale AI.
In un’epoca in cui le Big Tech fingono ancora di voler salvare il mondo mentre fanno accordi da retrobottega con il Pentagono, Meta ha deciso di uscire allo scoperto, abbracciando Scale AI come il partner perfetto per la sua visione di un’AI che non solo parla fluentemente millennial, ma può anche indossare un elmetto da combattimento.

Quando il più “itty bitty macho man” della Silicon Valley decide di riscrivere le regole del valore intellettuale, non stiamo parlando solo di algoritmi e codici, ma di un vero e proprio assalto al patrimonio culturale globale. Meta, colosso da 1.2 trilioni di dollari, ha appena svelato la sua nuova strategia di business: rubare proprietà intellettuale su larga scala, dichiarando i sette milioni di libri usati per addestrare la sua intelligenza artificiale come “privi di valore economico”. Tradotto: spazzatura.
Non è una trovata da nerd con scarsa etica, è una manovra di pura arroganza, con radici profonde in una concezione distorta di cosa significhi innovare nel ventunesimo secolo. Un’innovazione che profuma più di saccheggio che di genio creativo. Siamo di fronte a una Silicon Valley che, nel suo narcisismo, si crede il nuovo Rinascimento, ma dimentica che quello vero era costruito sulla protezione e valorizzazione delle opere d’arte, non sulla loro devastazione.

La Silicon Valley non sogna più di essere soltanto vista: vuole guardare dentro di noi. Meta, con l’annuncio dei suoi occhiali sperimentali Aria Gen 2, ha dato un’altra spinta all’inevitabile convergenza tra intelligenza artificiale, robotica e realtà aumentata. Ma attenzione, questi non sono occhiali per camminare per strada a caccia di Pokémon virtuali. Sono occhiali per chi, domani, vorrà essere letto più che leggere.
Siamo ben oltre il selfie con i Ray-Ban Stories. Aria Gen 2 è un laboratorio da indossare, un prototipo mascherato da accessorio, con un hardware che non scherza affatto. Meta parla con orgoglio del nuovo sistema di eye-tracking: riesce a monitorare ogni singolo occhio, distinguere i battiti di ciglia, stimare la posizione esatta delle pupille. Una macchina che segue lo sguardo, ma anche quello che potenzialmente stai per fare. Una sorta di pre-intenzione digitale, una lettura neuro-visiva anticipatoria.

Senti le urla? Sono virtuali, certo, ma perfettamente immaginabili. Grida soffocate dietro monitor curvi, nelle open space ovattate della Silicon Valley. Giovedì, Meta Platforms il colosso di Mark Zuckerberg che ha trasformato l’internet in un luna park disfunzionale – ha annunciato una partnership con Anduril, azienda di difesa fondata dal genio controverso Palmer Luckey. Obiettivo: sviluppare prodotti AR e VR per l’esercito. Per capirci: elmetti da guerra immersivi, visori con killfeed integrato, soldati che uccidono in alta definizione.
Nessun dettaglio concreto, solo nebbia linguistica da comunicato stampa, dove parole come “sinergetico”, “situational awareness” e “next-gen human-machine interfaces” vengono gettate come coriandoli sopra un accordo che, nella sostanza, significa una cosa sola: Meta entra nel business della guerra.

Che Meta avesse un problema con l’intelligenza artificiale non era un mistero. Che avesse anche un problema di ego, forse lo era un po’ di più. Ma oggi, a guardar bene, le due cose coincidono. Martedì è arrivata la conferma: la divisione AI generativa è stata ufficialmente smontata e risuddivisa in due tronconi. Non è solo una riorganizzazione: è una mossa chirurgica con tanto di anestesia semantica, perfettamente stile Silicon Valley.
Da un lato, il solito team “ricerca”, che continuerà a inseguire la chimera del Large Language Model perfetto, capeggiato da Ahmad Al-Dahle e Amir Frenkel. Dall’altro, il team “consumer products”, guidato da Connor Hayes, che si occuperà di far funzionare concretamente Meta AI – il famigerato assistente virtuale che dovrebbe un giorno riuscire a distinguere tra un utente ironico e un terrorista.
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