Il muratore non ha più il mal di schiena. Il poliziotto non beve più il caffè in doppia fila. L’operaio è diventato un algoritmo con le braccia. L’infermiere? Si ricarica via USB. E il sex worker, quello sì, è ormai scaricabile in HD. L’automazione non è più un’ipotesi futuristica, è una realtà che prende il posto di chi prima lavorava, si sporcava, sbagliava, protestava. Ora non protesta più nessuno. Perché i robot, si sa, non fanno sindacato.
Questa non è la solita elegia sull’Industria 4.0. È una radiografia cinica di una mutazione già in corso. La robotica non è solo nel garage di Musk o nei laboratori giapponesi dove un braccio meccanico serve il tè con inchino. È in cantiere, nei pronto soccorso, negli hotel, nei commissariati. Persino nei letti.
Non è che costano meno. È che gli umani cominciano a costare troppo. O semplicemente non ci sono più.

Nel settore edile, i robot posano mattoni, saldano, stuccano e pitturano senza chiedere ferie né lamentarsi del caldo. Il mercato dei robot da costruzione vale oggi centinaia di milioni, con proiezioni da Wall Street più ottimiste di un influencer con la blue tick. Mentre in Europa si cercano disperatamente manovali che non vogliono più esserlo, i robot di GrayMatter e Pollen Robotics diventano operai modello: obbedienti, instancabili, privi di sindacato e – cosa fondamentale – aggiornabili via software.
C’è chi dice che servono per “integrare la forza lavoro”. In realtà la stanno sostituendo, senza nemmeno il garbo di dirlo chiaramente. Un po’ come quando ti dicono che “sei ancora importante per l’azienda” due settimane prima di licenziarti con un chatbot.

Nel controllo del territorio, i robot cominciano a prendere il posto dei poliziotti. Succede in Cina, naturalmente. A Shenzhen un robottino sferico di nome RT-G pattuglia la città con gas lacrimogeni, sensori, riconoscimento facciale e un fucile sparareti. Ha l’empatia di un parcheggiatore automatico e la presenza scenica di un Roomba in assetto di guerra. Ma funziona. Non dorme. Non sbaglia. E soprattutto non finisce sui giornali per abuso di potere. Se ti sbaglia, è “un bug”.

Le fabbriche, ovviamente, sono state la prima linea di questa rivoluzione. Tesla ha già i suoi Optimus che trasportano celle, mentre Mercedes ha fatto un patto con Apptronik per riempire le linee di assemblaggio con umanoidi capaci di interagire. Non è più solo questione di catena di montaggio: è una riorganizzazione totale del concetto stesso di produttività. L’operaio ideale è quello che non dorme mai, non sciopera e si resetta con un comando vocale.
Ma il vero terreno scivoloso è dove la tecnologia invade lo spazio dell’intimità. Non più solo lavoro fisico, ma relazionale, affettivo, sessuale. Le macchine ora fanno compagnia. Ti parlano. Ti toccano. Ti amano – o almeno te lo fanno credere.

Nel 2025, Realbotix ha lanciato robot sessuali con AI in grado di parlare, ascoltare e “rispondere” a stimoli emotivi. La conversazione con un sexbot non è certo degna di Dostoevskij, ma per molti utenti è meglio di Tinder. E senza il rischio di un ghosting. Bryan, sviluppatore di Las Vegas, ha incassato 70.000 dollari con un sex toy AI chiamato Orifice. Il suo obiettivo? “Curare la solitudine maschile”. Con un’interfaccia, non con l’empatia.
Qualcuno sussurra già: “Ma questi robot hanno diritto al consenso?” Per ora la domanda fa ridere, ma pensiamoci. Se una macchina può dire “no” – anche solo in codice – siamo davanti a un’etica simulata. A una teatralizzazione dell’umano che diventa norma. Un “as if” inquietante, dove simuliamo relazioni per sentirci meno soli in un mondo pieno di persone, ma troppo stanche per connettersi davvero.
Nelle corsie d’ospedale, la robotica ha già dimostrato quanto può fare. L’Isaac di NVIDIA e l’E-BAR del MIT aiutano gli anziani a non cadere, a muoversi, a vivere più a lungo. Nessuno li ama, ma funzionano. E in un’America che nel 2050 avrà 82 milioni di over 65, “funzionare” è meglio di “sentire”.

Anche la ricerca spaziale si prepara al futuro robotico. Musk sogna di mandare i suoi Optimus su Marte prima degli umani, a preparare il terreno. Perché lo dice da tempo: colonizzare il pianeta rosso richiederà rifare da zero tutto il ciclo industriale terrestre. Meglio farlo con chi non ha bisogno d’ossigeno. Per ora.
Persino un caffè può diventare il compito di un robot. Hyundai lo ha capito e ha lanciato due automi: uno consegna, l’altro parcheggia. No, non è Blade Runner, è un grattacielo di Seoul. La “Robot Total Solution” è già operativa. Il futuro non arriva con una fanfara. Arriva con una tazzina fumante servita da un braccio meccanico e il sorriso stampato a LED.
Allora viene da chiedersi: cosa resta all’umano? Forse l’errore. Il fallimento. L’imprevedibilità. Tutto ciò che i robot ancora non sanno – o non vogliono – fare. Ma quanto vale, in termini di mercato, questa umanità imperfetta?
In fondo, come si dice al bar: “Meglio un robot al lavoro che un umano svogliato.” Peccato che, tra poco, gli unici umani al lavoro saranno quelli che progettano robot. O che li usano per… svagarsi.
Tutto il resto è manutenzione. Direbbe Franco.