C’erano una volta i piccoli provider locali, quelli che ti davano l’ADSL a 7 mega e ti chiamavano per nome. C’erano, sì. Poi sono arrivati i giganti, e ora c’è Starlink. Anzi, c’è molto di più. C’è l’avvento del Sesto Potere. Sì, dopo legislativo, esecutivo, giudiziario, mediatico e finanziario… ora esiste un nuovo impero: la Rete sovrana, spaziale, ubiqua, e alimentata da intelligenza artificiale.

Il nome su cui dovremmo riflettere non è più solo Elon Musk. È il consorzio trasversale che include Alphabet, OpenAI, Amazon, SpaceX e una galassia di soggetti che stanno colonizzando il pianeta con satelliti, large language models e piattaforme in grado di ridefinire la sovranità. Il punto non è più “a chi appartiene Internet”, ma “a chi appartiene la mente che lo attraversa”.

Starlink, con la sua copertura globale satellitare, è il cavallo di Troia perfetto per destabilizzare i micro-feudi digitali locali: i provider territoriali, spesso inefficienti, burocratici, nati in un’epoca in cui serviva scavare buche per portare la fibra. Ora basta puntare una parabola al cielo, et voilà: banda larga direttamente da Marte. Letteralmente.

Ma Starlink è solo la miccia. La vera esplosione arriva con la nuova fase del platform shift evocata da Sundar Pichai, CEO di Alphabet, durante il post-orgiastico Google I/O. L’aria che si respirava, per dirla con un understatement inglese, era quella dell’impero consapevole della sua superiorità. Una Google che finalmente si scrolla di dosso il complesso da nerd di laboratorio e si veste da conquistatrice.

Pichai non parla più di “AI come elettricità” che già faceva tremare le fondamenta della modernità ma spiega che ora siamo nella fase in cui la ricerca diventa realtà. Attenzione, non è marketing. È un cambio di paradigma. La nuova intelligenza artificiale non è solo un assistente che chatta: è una piattaforma che si auto-crea, si auto-migliora e comincia a produrre risultati tangibili. Gemini, Imagen, Veo: nomi che oggi sembrano solo sigle da keynote, ma che domani saranno le mattonelle fondamentali del nuovo ordine tecnologico.

E mentre l’AI si insinua nei flussi informativi, nei workflow aziendali, nelle conversazioni umane e nella stessa logica di produzione del sapere (ciao SEO, addio link, benvenute risposte sintetiche generate su misura), accade qualcosa di molto più profondo: l’equilibrio geopolitico si sposta.

Perché sì, signori: l’AI non è una moda. È la nuova architettura del potere.

Quando Google annuncia che presto la ricerca non sarà più una lista di link, ma una pagina generata in tempo reale, con grafici, mappe, funzioni interattive e informazioni già digerite… quello che sta dicendo è che il web è finito. O meglio: è diventato substrato. Un grande database semantico sul quale si muoveranno agenti autonomi le AI appunto a cui delegheremo l’analisi, la scelta e persino l’azione.

Nel frattempo, i giornali e le testate online (quelle stesse che per anni hanno vissuto di SEO e clickbait) gridano al furto. “AI Mode è una rapina di contenuti”, tuona la News Media Alliance. Ma è una battaglia persa. La macchina è partita. I dati sono stati già divorati, i modelli addestrati. Ciò che resta è una lotta sulla forma giuridica del dominio, non sulla sostanza.

La sostanza è che Alphabet, OpenAI, Amazon, Meta, stanno diventando Stati-nazione virtuali. Hanno utenti, infrastrutture, sistemi fiscali paralleli, regolamenti, diplomazia (alias lobbying) e una valuta: il dato. L’unica risorsa che non si consuma, anzi si moltiplica.

E mentre gli ISP locali vengono schiacciati da tariffe impossibili da pareggiare e da una tecnologia ormai fuori dalla loro portata, gli utenti applaudono. Perché Starlink funziona. Perché Gemini risponde. Perché Veo crea video. Perché la AI è comoda. E il comfort è la droga perfetta per la sottomissione volontaria.

Intanto, nella Silicon Valley, si discute del futuro hardware dell’AI. Occhiali intelligenti, dispositivi “ambientali”, interfacce cerebrali. Ma la vera rivoluzione non è nella retina: è nel modello. L’AI non ha bisogno di uno smartphone per dominarti. Le basta essere la tua seconda mente.

E qui si apre il paradosso finale: quando tutto sarà AI-driven, quando la maggior parte delle attività digitali saranno eseguite da agenti automatici per nostro conto prenotare, cercare, decidere cosa resterà dell’umano?

Restano i paradossi ontologici. Come può la rete sopravvivere se nessuno la visita, ma tutti la “interrogano” tramite software? Come può un servizio prosperare se non è visitabile, ma solo “consultabile” da AI?

“Sacrosanta”, dice Pichai, riferendosi alla ricerca, come principio inviolabile. Ma anche il Sacro Impero è caduto. E Google, da giudice imparziale dell’informazione globale, sta diventando architetto personalizzato della verità individuale.

Certo, la nuova fase è entusiasmante. Un medico che usa un AI per trascrivere, analizzare e suggerire diagnosi. Un designer che genera concept in tempo reale. Un avvocato che analizza centinaia di documenti in pochi secondi. Un imprenditore che crea un’applicazione senza scrivere codice. Ma dietro l’euforia, c’è una verità cinica: il potere si sta accentrando.

Non nei governi. Non nelle banche. Nei server.

E allora la vera domanda non è cosa farà l’AI. Ma chi la governerà.

Perché quando Starlink ti collega al cloud globale e Gemini ti offre consigli in tempo reale e il tuo stesso business model è diventato un’API gratuita consumata da un agente autonomo… sei ancora tu il protagonista della storia?

O sei solo un dato ben strutturato in un prompt elaborato?

Il Sesto Potere non chiede il permesso.

Ti offre tutto. In cambio di tutto.