Il Pentagono non ha bisogno di decollare per far capire che intende restare in cima alla catena alimentare tecnologica globale. Con l’annuncio dei test a terra dei nuovi droni da combattimento YFQ-42A e YFQ-44A, gli Stati Uniti lanciano un messaggio diretto e in alta frequenza a Pechino: l’era dei caccia autonomi non è un esperimento accademico, è una corsa all’egemonia che sta per prendere quota.


Il fatto che siano i primi droni nella storia dell’aeronautica militare americana a ricevere una designazione da caccia dovrebbe già far alzare qualche sopracciglio nei corridoi grigi del Zhongnanhai. Non si tratta più di robot che sorvegliano deserti o inseguono pickup su strade sterrate. Qui parliamo di macchine intelligenti pensate per combattere a fianco dei piloti umani, per ingaggiare, ingannare, assorbire fuoco nemico e — soprattutto — prendere decisioni letali senza chiedere permesso.

Con nomi poco poetici ma carichi di ambizione, questi droni sono il cuore pulsante del programma CCA (Collaborative Combat Aircraft), una costola letale della più ampia iniziativa NGAD (Next Generation Air Dominance), l’architettura futurista che deve garantire agli Stati Uniti la supremazia aerea nel ventunesimo secolo. Ma il vero punto di svolta non è l’hardware: è il software.

Le due aziende coinvolte, General Atomics e Anduril, incarnano la simbiosi tra industria militare classica e Silicon Valley militante. La prima è madre del famigerato MQ-9 Reaper; la seconda è la creatura ipercapitalizzata del cofondatore di Oculus, Palmer Luckey, e rappresenta la visione techno-libertaria applicata alla guerra. Se la Lockheed Martin è il Boeing 747, Anduril è il drone FPV da corsa: piccolo, scattante, pensato per rompere regole e modelli di business.

Il generale David Allvin, capo di stato maggiore dell’US Air Force, l’ha detto chiaramente: questa fase “riduce i rischi di integrazione”. Traduzione: stiamo lavorando a rendere la guerra algoritmica plug-and-play, standardizzabile, modulare. La guerra come API.

I test, per ora, non sono spettacolari: si parla di propulsione, avionica, sistemi autonomi, capacità d’integrazione. Ma non lasciatevi ingannare dall’apparente lentezza: questi sono i giorni in cui si decide il tipo di intelligenza artificiale che prenderà decisioni in frazioni di secondo quando un missile cinese lampeggia su un radar alleato.

L’obiettivo è ambizioso ma cristallino: mille droni in campo entro il 2028, ognuno dal costo “modesto” di 30 milioni di dollari. Meno della metà di un F-35, molto meno del costo umano di un pilota abbattuto. E soprattutto: replicabili in scala, sacrificabili, agili.

Li chiamano “loyal wingmen”, ma il termine suona già obsoleto. Fedeli sì, ma anche spietati, addestrati non a proteggere, ma a moltiplicare la letalità. In prima linea a ingaggiare, a “farsi sparare addosso” al posto del caccia con equipaggio, a servire da esca, da spia e da killer silenzioso.

E la Cina? Silenziosa ma tutt’altro che immobile. Il drone FH-97A ha fatto la sua comparsa allo Zhuhai Air Show 2024: otto missili, capacità stealth, e l’inequivocabile intento di accompagnare il caccia J-20, la risposta cinese all’F-22.

E poi c’è il GJ-11, osservato da satellite mentre si muoveva in Xinjiang. Il messaggio è implicito ma chiaro: la PLA vuole non solo dominare lo spazio aereo, ma farlo con sistemi autonomi, compatibili con i vettori navali, con algoritmi pronti a eseguire senza esitazioni.

Ora, i cultori della superiorità occidentale potrebbero alzare un sopracciglio. “Ma l’intelligenza artificiale cinese è indietro di dieci anni!” Vero? Forse. Ma l’AI bellica non si misura solo in parametri open source. Lì fuori si combatte anche con algoritmi addestrati in ambienti chiusi, su infrastrutture statali, senza le inibizioni morali dell’occidente. E quando un algoritmo non deve rispettare né norme NATO né dibattiti etici, può diventare molto più pericoloso molto più in fretta.

Il vero colpo di scena, però, è la tempistica. Mentre il caccia sesta generazione F-47 – quello annunciato da Trump e attualmente in fase di ingegnerizzazione – non volerà prima del 2029, il Pentagono si lancia nella scommessa più audace: bypassare i colossi aerei e affidarsi all’evoluzione darwiniana degli sciami autonomi.

Un F-47 può costare centinaia di milioni, con anni di sviluppo e diplomazie geopolitiche da oliare. Un CCA, invece, può essere costruito con cicli di aggiornamento software rapidi, prodotto in fabbriche già in grado di replicare droni commerciali su larga scala.

E qui l’ironia si fa strategica. Gli stessi principi che hanno reso Amazon e Apple imbattibili – rapidità, modularità, aggiornamento continuo – stanno entrando nei corridoi del Pentagono. Non è un caso se Anduril parla dei suoi droni come “prodotti”, non “armi”.

Come disse una volta un generale USA, “I droni non dormono, non mangiano e non protestano per il salario”. Ma ora, aggiungiamo, imparano.

La domanda che nessuno osa formulare è: in un mondo dove i caccia hanno cervelli sintetici, chi prenderà davvero la decisione finale di premere il grilletto? E soprattutto: quando il drone deciderà che l’errore è umano, chi sarà il vero “wingman”?

Per ora ci accontentiamo della messa a terra, dei test di volo in estate e degli annunci ambiziosi. Ma ogni codice che gira oggi in un hangar della California o in una base nel deserto del Nevada potrebbe essere domani la scintilla che accende una guerra algoritmica tra superpotenze.

Quindi sì, forse la vera supremazia non si gioca nei cieli, ma nei dataset. E la prossima guerra potrebbe essere vinta non da chi ha il missile più veloce, ma dall’algoritmo più addestrato.