Se la notizia ti è sfuggita, tranquillo: era sepolta nel solito mare di comunicati stampa, tweet entusiastici e titoloni da “rivoluzione imminente”. Ma vale la pena fermarsi un attimo. OpenAI, la creatura a trazione Microsoft che ormai più che un laboratorio di ricerca sembra una holding semi-governativa, affitta da Oracle qualcosa come 4.5 gigawatt di capacità di data center. Sì, gigawatt, non gigabyte. Un’unità di misura che evoca più una centrale nucleare che un cluster GPU. E in effetti è esattamente questo: Stargate non è solo un nome evocativo, è un progetto da 500 miliardi di dollari, con sede principale ad Abilene, Texas, e tentacoli infrastrutturali in mezzo continente. Il che, a pensarci bene, suona molto più simile a un’operazione geopolitica che a un’innovazione tecnologica.

Chi sta guidando la corsa all’infrastruttura per l’intelligenza artificiale non è chi sviluppa gli algoritmi, ma chi controlla le pale eoliche digitali su cui questi cervelli artificiali girano. Oracle, con le sue azioni schizzate al record storico dopo l’annuncio, non è mai stata tanto sexy. L’azienda fondata da Larry Ellison, notoriamente più interessato ai jet privati che ai paper accademici, si è trasformata improvvisamente nel cavallo su cui le big tech stanno puntando per reggere il peso computazionale di LLM da centinaia di miliardi di parametri. Non è un caso che lo stesso Ellison abbia sempre scommesso su una strategia controcorrente: ignorare la narrativa cloud “da developer” per puntare tutto sull’enterprise, sugli accordi top-down, e su contratti da dieci zeri con il governo e i colossi dell’AI. Visione limitata? Forse. Profondamente redditizia? Decisamente sì.

Il progetto Stargate è un’infrastruttura militare in abiti civili, travestita da operazione di progresso tecnologico. Dietro ogni petabyte di training data, ogni GPU H100 e ogni rack raffreddato a immersione c’è un’agenda molto chiara: la supremazia strategica nell’intelligenza artificiale. E non a caso, tra i partner spuntano SoftBank, Arm, Nvidia, Cisco, e il solito Microsoft. È il ritorno della geopolitica delle API, dove il codice è solo la superficie. Quello che conta è chi possiede il ferro, chi lo installa nei posti giusti, chi ha accordi con gli Stati, chi può garantire che il prossimo ChatGPT non venga allenato su server cinesi.

A questo punto, è lecito chiedersi se OpenAI sia ancora Open, o se sia semplicemente l’ennesimo brand di facciata per una nuova forma di cloud imperialism. L’azienda, che aveva iniziato come non-profit con una missione quasi etica, oggi è un conglomerato a strati concentrici, con investitori che vanno da Microsoft al governo degli Emirati. E non è un caso che il progetto Stargate abbia già una diramazione: Stargate UAE, annunciato a maggio con il coinvolgimento di G42, Nvidia, e – ovviamente – Oracle. Si parla tanto di sovranità digitale, ma quello che stiamo costruendo è un’infrastruttura transnazionale, in mano a pochi soggetti privati, spesso fuori da qualsiasi controllo democratico.

La parola “gigawatt” ricorda una scena iconica di Ritorno al futuro, dove Doc Brown esclama disperato che per attivare la DeLorean servono “1.21 gigawatt!”. Allora sembrava un’unità di misura fantascientifica, oggi è la base operativa di un’infrastruttura globale che potrebbe decidere chi avrà il potere computazionale sufficiente per allenare le AI generaliste di domani. E se pensi che tutto questo sia esagerato, considera che 4.5 gigawatt è circa tre volte il consumo energetico dell’intera rete di data center di Meta. Il fatto che si parli solo marginalmente di sostenibilità o impatto ambientale, in un progetto di queste dimensioni, è un silenzio che fa più rumore di qualsiasi annuncio da keynote.

Non stiamo assistendo a una corsa tecnologica, ma a una guerra infrastrutturale, dove i vincitori non saranno gli inventori, ma i concessionari. Oracle, con il suo approccio da “autostrada della computazione”, ha semplicemente affittato le corsie preferenziali al miglior offerente. La vera innovazione, quella dei pionieri, è stata sostituita dal project financing e dai memorandum d’intesa multilaterali. Lo chiamano ecosistema, ma somiglia sempre più a un’oligarchia siliconica.

Nel frattempo, i piccoli player, le startup, gli universitari e i sognatori che una volta popolavano il mondo AI, sono costretti a rincorrere API sempre più costose, modelli chiusi, e servizi cloud il cui prezzo sale con la velocità del Nasdaq. OpenAI oggi non apre nulla: si affida a Oracle per scalare, a Microsoft per integrare quando non ci litiga e agli Emirati per diversificare. Un triangolo perfetto, se sei un CFO. Un disastro, se credi ancora nella neutralità tecnologica.

La verità è che il futuro dell’intelligenza artificiale si sta decidendo nei boardroom, non nei laboratori. L’AI è già passata dalla fase romantica della ricerca a quella cruda del monopolio computazionale. E mentre ci affanniamo a discutere di bias nei modelli, copyright nei dataset, o hallucinations nei chatbot, le partite vere si giocano su quanti megawatt riesci a mettere sotto contratto nei prossimi due anni.

Non serve leggere tra le righe per capire dove stiamo andando. Basta leggere i numeri. 500 miliardi di dollari. 4.5 gigawatt. Centinaia di ettari di terra in Texas, Wyoming, Ohio. Le intelligenze artificiali del futuro non nasceranno nei laboratori, ma nei deserti, accanto alle linee elettriche ad alta tensione. E saranno addestrate da entità che hanno più in comune con un consorzio di appalti che con una facoltà di ingegneria.

Stargate non è un progetto, è un simbolo. La porta verso una nuova forma di dominio, dove la potenza computazionale è il nuovo petrolio. E Oracle, nel ruolo inaspettato del fornitore imperiale, ha appena firmato il contratto del secolo.