Si continua a parlare di rivoluzioni militari come se fossero aggiornamenti software, con l’entusiasmo di un product manager davanti a un nuovo rilascio beta. Droni, intelligenza artificiale, guerre trasparenti e interoperabilità digitale sono diventati il mantra ricorrente dei think tank euro-atlantici. La guerra, ci dicono, è cambiata. Il campo di battaglia sarebbe ormai un tessuto iperconnesso dove ogni oggetto emette segnali, ogni soldato è una fonte di dati, ogni decisione è filtrata da sensori, reti neurali e dashboard. Tutto bello, tutto falso.
Sul fronte orientale dell’Europa, tra gli ulivi morti e le steppe crivellate di mine, la realtà continua a parlare un’altra lingua. La lingua della mobilità corazzata, del logoramento, della saturazione d’artiglieria e, sì, anche della carne. In Ucraina si combatte come si combatteva a Kursk, con l’unica differenza che oggi il drone FPV è la versione democratizzata dell’artiglieria di precisione. Il concetto chiave, però, resta lo stesso: vedere, colpire, distruggere. Con un twist: adesso si può farlo a meno di 500 euro e senza bisogno di superiorità aerea.
Certo, il drone è diventato la nuova divinità della guerra mediatica. Ma la sua onnipresenza rischia di distorcere la percezione strategica. Perché i droni non sostituiscono nulla. Non sostituiscono la manovra, non sostituiscono la logistica, non sostituiscono le brigate meccanizzate. La loro efficacia cresce dove esistono forze che sanno usarli in un ecosistema tattico, non come feticci individuali. È come dotare di GPS un esercito che non sa leggere una mappa. Si ottiene solo un fallimento geolocalizzato.
Nel frattempo, in Europa, i piani di difesa si scrivono su PowerPoint e si modellano in simulazioni cloud-native, come se il conflitto fosse una sandbox interattiva. Il “modello divisionale” viene abbandonato in favore di formazioni ibride, modulari, leggere, che sulla carta sembrano agili ma in realtà non sono né leggere né pronte. Il risultato? Eserciti disossati, incapaci di sostenere un’offensiva o difendere un asse operativo. Come ha recentemente osservato Jack Watling del RUSI, “la maggior parte delle forze europee può sostenere un’operazione terrestre su scala divisionale per meno di due settimane, dopodiché collassa sotto il peso della sua stessa logistica”.
E qui entra in gioco l’intelligenza artificiale. In teoria, dovrebbe aiutare. In pratica, viene usata come placebo strategico. Proliferano progetti di “battlefield awareness” basati su LLM, sistemi predittivi di analisi comportamentale del nemico, algoritmi che promettono di anticipare le mosse avversarie come se il conflitto fosse un gioco a informazione perfetta. Ma la guerra resta un’attività caotica, dominata da attrito, sorpresa e rotture sistemiche. Se l’AI militare funziona, è perché qualcuno ha già pulito il campo dati, classificato l’input, definito gli obiettivi. E quel qualcuno, oggi, non c’è. Gli eserciti occidentali non sono pensati per nutrire l’AI. Sono pensati per evitare di combattere.
La verità è che nessun modello algoritmico potrà mai sostituire ciò che manca: una cultura operativa coerente, una forza addestrata alla guerra ad alta intensità, una logistica dimensionata sulla profondità strategica e non sull’urgenza tattica. Senza queste tre gambe, qualsiasi salto tecnologico diventa un trucco da circo. Il risultato è che l’Europa rischia di combattere la guerra del futuro con le dottrine del passato e le illusioni del presente.
Da Tel Aviv a Helsinki, qualcuno ha capito che la guerra terrestre non è né obsoleta né secondaria. Israele, che pure è all’avanguardia in materia di droni e AI, non ha mai smesso di investire in fanteria meccanizzata, genio militare, artiglieria da campagna e logistica pesante. La Finlandia, con il suo esercito di leva e la sua resilienza territoriale, rappresenta uno dei pochi modelli europei capaci di sostenere una difesa strutturata. Entrambi sanno che non ci si difende con la superiorità informativa, ma con la superiorità organica: uomini, veicoli, munizioni, comando.
In questo quadro, l’ossessione per la trasparenza totale del campo di battaglia assume tratti quasi metafisici. L’idea che tutto si possa vedere, riconoscere, neutralizzare prima ancora che accada è il sogno ultimo dell’ingegneria occidentale: eliminare la frizione, razionalizzare il caos, ridurre la guerra a un problema computazionale. Ma ogni tentativo di “normalizzare” la guerra ha fallito. Clausewitz resta più valido di qualsiasi modello predittivo: la guerra è nebbia, attrito, errore. E chi costruisce i suoi sistemi su presupposti deterministici finisce per essere sorpreso.
È quindi paradossale che mentre l’Ucraina suda, sanguina e si adatta sul campo, molti osservatori occidentali insistano nel cercare nella guerra elementi di rottura tecnologica, invece di capire le continuità operative. Si preferisce celebrare il drone-kamikaze che uccide un tank russo piuttosto che chiedersi perché quel tank fosse lì, perché fosse solo, perché nessuno lo abbia coperto. È un modo per evitare le domande vere. Come costruire una brigata che muove, comunica, combatte e resiste per più di tre giorni? Come assicurare il rifornimento continuo in un contesto di interdizione elettronica e fisica? Come creare ufficiali in grado di comandare sotto pressione reale?
La risposta non è nei laboratori della Silicon Valley né nei corridoi della NATO, ma nei centri di addestramento, nei poligoni, nei depositi, nei reparti. È lì che si forma il capitale umano che serve. L’AI potrà al massimo amplificare, mai sostituire. E non a caso, i paesi che oggi si preparano davvero alla guerra non investono in promesse tecnologiche, ma in prontezza. La Germania annuncia il ritorno alla leva (ma senza ancora crederci). La Polonia forma 300.000 riservisti. I paesi baltici costruiscono infrastrutture difensive, scavano, addestrano.
Ma la grande assente resta l’idea. Nessuna IA può supplire alla mancanza di una dottrina. Nessun drone salva una strategia incoerente. E nessuna slide può rimpiazzare un comandante capace. Si può automatizzare molto, ma non si può automatizzare la volontà di combattere, la disciplina di un reparto, la coesione in trincea. Questi elementi, che oggi sembrano arcaici, sono in realtà i veri fattori moltiplicativi del potere militare.
Il rischio concreto è che l’Europa scopra tutto questo troppo tardi, quando si renderà conto che la guerra non si vince con i pitch deck e i report dell’EY sulle tecnologie dual-use. La guerra si vince (o si perde) nella sostanza: nella catena di comando, nella disciplina logistica, nella brutalità del combattimento, nella capacità di sostenere perdite e infliggerne di maggiori. Nessuna AI potrà fare questo lavoro al posto nostro.
Finché continueremo a credere che si possa compensare l’assenza di divisioni corazzate con una nuvola di sensori e software, resteremo vulnerabili. Perché il nemico, nel frattempo, non smette di addestrarsi, scavare, imparare, adattarsi. E mentre noi raccontiamo che la guerra è cambiata, lui si prepara a combatterla come sempre: con determinazione, con forza e, soprattutto, con la volontà di vincere.

…di ogni novità tecnologica, senza una comprensione profonda dei fondamenti tattici e operativi del combattimento moderno, rappresenta un vizio ricorrente delle democrazie occidentali in tempo di pace. È proprio contro questa tendenza che William F. Owen, con il suo stile sobrio e chirurgico, alza la voce in Euclid’s Army. Non serve prevedere il futuro, dice Owen, serve invece capire come combattere oggi. Il problema non è il drone, ma l’ossessione per il drone. Non è la tecnologia a mancare, ma l’intelligenza strategica nell’impiegarla.
Il nocciolo del pensiero di Owen, e il cuore semantico dell’intero volume, si articola attorno alla “Monash Division”: un concetto tanto spartano quanto dirompente. Duemila mezzi. Non uno di più. Eserciti addestrati, equipaggiati e pronti alla mobilità rapida, con logiche modulari e forze di riserva integrate. È il contrario di ciò che hanno fatto gli eserciti NATO nel ventennio post-11 settembre, sfiancati da guerre asimmetriche gestite con la logica del contractor e dell’air conditioning strategico. L’idea di Owen è brutalmente semplice: semplificare, addestrare, muovere. E soprattutto, essere pronti. Oggi, non domani.