Guardando la vicenda del TikTok deal con occhi da tecnologo, la prima impressione è che non siamo davanti a una semplice cessione aziendale, ma a un intricato puzzle geopolitico travestito da operazione finanziaria. TikTok, con i suoi 170 milioni di utenti americani, non è solo un’app di intrattenimento; è diventata un simbolo della collisione tra interesse commerciale, sicurezza nazionale e strategia tecnologica.
La proposta di vendita a un consorzio guidato da Oracle, lasciando a ByteDance un 20 per cento di quota, appare sulla carta un compromesso elegante. Ma la realtà, come spesso accade quando Washington e Pechino entrano in gioco, è molto più complessa.
La recente escalation nelle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina ha lanciato ombre pesanti sul TikTok deal. Le misure di Pechino sui metalli rari, risposta alla lista nera statunitense, e le minacce di dazi aggiuntivi hanno creato un’atmosfera in cui “è difficile vedere la conclusione del deal”, secondo Gary Ng di Natixis. Il linguaggio della diplomazia cinese, pur rispettoso dei “diritti commerciali e legali dell’azienda”, non lascia intravedere entusiasmo. Mark Natkin di Marbridge Consulting osserva come la Cina veda ancora l’accordo come incompiuto, con la rinnovata tensione che ne ostacola l’approvazione.
Dal lato statunitense, l’esecutivo tenta un equilibrio delicato: proteggere i dati e la sicurezza nazionale senza far collassare l’accesso di milioni di utenti a TikTok. L’ordine esecutivo del 25 settembre che qualifica la cessione come “qualified divestiture” punta a mettere algoritmi, codice e moderazione dei contenuti sotto il controllo di un’entità statunitense. La precisione dei dettagli è minima, ma il messaggio è chiaro: gli Stati Uniti vogliono mantenere una parvenza di sovranità digitale, senza creare un incidente diplomatico troppo vistoso.
Il calendario non aiuta. La scadenza per la cessione continua a slittare, ora fissata al 16 dicembre, con un periodo di grazia di 120 giorni in cui il Dipartimento di Giustizia non prenderà azioni. Questa finestra temporale appare più come un respiro artificiale che come un segnale di stabilità. In pratica, ogni giorno di tregua diplomatico serve a guadagnare tempo in un contesto in cui ogni mossa può essere invertita.
Gli analisti rimangono divisi. Alfredo Montufar-Helu indica che la posizione di Pechino è difficile da valutare, dato che il testo completo dell’accordo non è pubblico. James Zimmerman sottolinea come nulla sia immune da ritrattazioni o modifiche improvvise. Il TikTok deal diventa così un laboratorio di geopolitica applicata alla tecnologia: un algoritmo di negoziazione dove le variabili non sono solo economiche, ma anche politiche e sociali.
Paradossalmente, la fragilità dell’accordo potrebbe essere anche il suo punto di forza. I colloqui a livello operativo tra Cina e Stati Uniti continuano, e i segnali di “linguaggio più morbido” indicano una volontà reciproca di evitare un collasso totale. La strategia di Pechino e Washington sembra puntare a mantenere il TikTok deal vivo, pur con il rischio che possa trasformarsi in un’arma politica o in un esempio di come l’economia digitale globale sia intrinsecamente vulnerabile alle scosse geopolitiche.
Sul fronte tecnologico, la questione è più profonda di quanto appaia. TikTok non è solo un social network: è un ecosistema di intelligenza artificiale, algoritmi di raccomandazione e moderazione dei contenuti, tutti elementi che influenzano percezioni, comportamenti e discorsi pubblici. La prospettiva di un controllo statunitense su questi meccanismi apre interrogativi su privacy, manipolazione dei dati e governance algoritmica. Chi controlla il codice controlla la narrativa, e questo, in un mondo polarizzato come quello odierno, non è un dettaglio trascurabile.
Ironia della sorte, mentre gli analisti si affannano a prevedere il futuro del TikTok deal, l’algoritmo dell’app continua a decidere cosa mostrarti, cosa suggerirti e chi influenzare. Un accordo ancora “sulla carta” rischia di trasformarsi in un laboratorio di simulazione geopolitica, dove ogni tweet di Trump e ogni dichiarazione di Pechino diventa un input nella grande rete neurale della diplomazia internazionale.
Nel dibattito sul TikTok deal, molti immaginano Oracle come un salvatore finanziario della piattaforma. La realtà è più sottile: l’azienda non dipende economicamente da TikTok. Con oltre 50 miliardi di dollari di fatturato annuo tra software, cloud e servizi, la mancata conclusione dell’accordo non metterebbe in crisi la sua sostenibilità.
Il vero interesse di Oracle è strategico. Gestire infrastruttura e cloud di TikTok negli Stati Uniti significherebbe controllo su dati, algoritmi e sicurezza, rafforzando il suo prestigio tecnologico e il posizionamento nel mercato globale del cloud. In pratica, TikTok diventa più un biglietto da visita che una fonte di entrate: chi possiede il codice controlla la narrativa digitale, e Oracle non vuole rimanere fuori da questa partita.
Il TikTok deal non è un accordo banale tra investitori e startup. È un microcosmo della guerra commerciale, tecnologica e politica tra le due superpotenze. Oracle diventa un arbitro digitale, ByteDance un testimone riluttante, e gli utenti americani pedine inconsapevoli in una partita di scacchi globale che mescola algoritmi, dazi e diplomazia. La fragilità dell’accordo è la sua essenza: ogni passo falso potrebbe far saltare tutto, ma ogni giorno di tregua rafforza la possibilità che, contro ogni probabilità, il TikTok deal sopravviva all’uragano geopolitico.