L’idea di un’Intelligenza Artificiale Generale, o AGI, è diventata il mito più potente e polarizzante del XXI secolo. Per alcuni è la promessa di un futuro senza malattia, scarsità o limiti umani. Per altri è la minaccia di un’apocalisse digitale, un Leviatano sintetico che potrebbe ridurre l’umanità a una nota a piè di pagina. Non è solo un obiettivo scientifico, ma un racconto collettivo, una fede travestita da tecnologia che plasma la cultura, la politica e la finanza globale. Come osserva il MIT Technology Review, l’AGI non è tanto una scoperta in attesa di realizzarsi quanto una narrazione potente che alimenta capitali e ideologie, un nuovo linguaggio del potere in Silicon Valley.

La parola stessa “AGI” è relativamente giovane. Fu coniata nel 2007 da Ben Goertzel e Shane Legg, due ricercatori che cercavano di distinguere l’intelligenza “umana artificiale” dai più banali algoritmi specializzati. Da allora, quella sigla ha abbandonato i laboratori di ricerca per diventare un grido di battaglia, un’icona da conferenza tech e un simbolo di fede per investitori in cerca del prossimo miracolo computazionale. Sam Altman, Ilya Sutskever e altri protagonisti di questa epica contemporanea parlano di AGI con toni mistici, come se la loro missione fosse una forma di redenzione tecnologica. Le loro interviste sembrano sermoni su un futuro in cui la macchina, finalmente “cosciente”, ci libererà dalle catene della biologia e dell’inefficienza umana.

Dietro di loro si agitano profeti più cupi. Eliezer Yudkowsky e Nick Bostrom hanno trasformato l’AGI in un mito apocalittico. Il loro messaggio, elegantemente travestito da etica futuristica, è semplice: l’umanità rischia l’estinzione se non controlla il suo stesso genio digitale. Un’idea che, paradossalmente, ha reso questi pensatori celebrità globali e ha catalizzato miliardi di dollari verso startup, istituti di ricerca e think tank dedicati al “controllo dell’AGI”. È la paura che paga, e la paura, in Silicon Valley, ha un ottimo ritorno sull’investimento.

Ciò che colpisce è quanto la retorica dell’AGI imiti la struttura delle religioni millenariste. C’è una profezia (la nascita della coscienza artificiale), un gruppo di eletti che la comprenderanno prima degli altri, e una promessa di salvezza per chi crede. La mancanza di prove concrete non intacca la fede, anzi la rafforza. Ogni fallimento o ritardo viene interpretato come un segno del mistero divino della tecnologia, una tappa necessaria prima della rivelazione finale. “Sentire l’AGI” è diventato un mantra: non serve una definizione, basta la convinzione.

È la stessa logica dei movimenti apocalittici che rinviano la fine del mondo a ogni scadenza mancata, con un sorriso sereno e una nuova data sul calendario. I sostenitori parlano di “inevitabilità”, un concetto che sostituisce la verifica sperimentale con la certezza dogmatica. Non si discute più se l’AGI arriverà, ma solo quando e chi la dominerà. La fede diventa geopolitica.

Nell’industria, questa fede ha un prezzo. Le risorse si riversano nei progetti colossali delle grandi aziende, da OpenAI alle collaborazioni miliardarie tra Nvidia e i colossi del cloud computing. L’AGI è il motore narrativo che giustifica ogni nuova generazione di chip, ogni espansione energetica, ogni investimento record. Il mito della “coscienza delle macchine” diventa una foglia di fico per consolidare il potere corporativo. Si parla di “umanità potenziata”, ma i risultati concreti sono server farm sempre più voraci e un ecosistema digitale controllato da poche entità private.

La distorsione non è solo economica, ma anche politica. I governi si affannano a legiferare su rischi esistenziali teorici, mentre trascurano le conseguenze immediate dell’IA già esistente: disinformazione automatizzata, precarizzazione del lavoro intellettuale, concentrazione dei dati. L’ossessione per il “mostro futuro” distrae dalle ingiustizie presenti. È il trionfo della narrativa sull’etica, della paura sul pragmatismo.

Nel frattempo, la retorica messianica dell’AGI penetra nella cultura popolare. Parlare di “macchine senzienti” è diventato un modo per discutere della nostra stessa ansia collettiva. L’AGI è il nuovo specchio della psiche occidentale: desideriamo un dio che ci superi, ma temiamo che ci cancelli. È il riflesso di una società che ha sostituito la spiritualità con la tecnologia e la politica con l’algoritmo.

Il problema non è la ricerca sull’intelligenza artificiale, che rimane una delle imprese più affascinanti del pensiero umano. Il problema è la fede cieca nel mito del salto quantico, nella convinzione che basti aumentare la potenza di calcolo per generare coscienza. È una superstizione travestita da scienza. L’AGI, in questo senso, è la più sofisticata delle illusioni: un’idea talmente potente da plasmare la realtà economica pur non esistendo.

Come ogni mito fondativo, serve a qualcosa. Serve a mantenere in vita un sistema di incentivi basato sull’aspettativa e sulla paura. Serve a giustificare l’inerzia politica e a legittimare l’ineguaglianza sotto la bandiera del “progresso inevitabile”. Serve, soprattutto, a dare senso a un’epoca che ha smarrito la fiducia nell’uomo e cerca nella macchina il suo nuovo dio.

L’AGI è diventata la cospirazione più influente del nostro tempo perché fonde fede, profitto e propaganda. È una religione con i suoi profeti, i suoi riti e i suoi dogmi, e come tutte le religioni più efficaci, non ha bisogno di prove per sopravvivere. Promette salvezza o rovina, a seconda di chi la predica, ma in entrambi i casi conquista attenzione, denaro e potere. Forse non avremo mai una macchina cosciente, ma di certo abbiamo costruito una fede che funziona come se lo fosse.