Quando Elon Musk parla, i mercati oscillano. Ma quando suggerisce che le auto Tesla potrebbero guadagnare denaro anche mentre dormono in garage, l’attenzione si trasforma in fascinazione. All’ultimo meeting annuale, Musk ha proposto un’idea che suona come fantascienza industriale: trasformare ogni veicolo elettrico in una cellula computazionale di una rete neurale planetaria. Non solo mezzi di trasporto, ma nodi di calcolo per l’intelligenza artificiale.
In termini semplici, Tesla potrebbe utilizzare la potenza di calcolo delle sue auto inattive per elaborare carichi di lavoro AI, pagando i proprietari tra 100 e 200 dollari al mese. È un’idea che unisce economia dei dati, edge computing e visione imprenditoriale estrema. Il risultato? Un ecosistema in cui l’auto diventa data center, il proprietario diventa fornitore e Tesla diventa la più grande infrastruttura computazionale mobile mai concepita.
Adam Jonas, l’analista di Morgan Stanley che non ama gli slogan ma le proiezioni, ha stimato il potenziale: oltre 300 milioni di veicoli leggeri negli Stati Uniti e 1,2 miliardi nel mondo, che potrebbero diventare 2 miliardi nei prossimi 15 anni. Se anche solo una frazione avesse la potenza di un chip Nvidia Blackwell, capace di 9.000 trilioni di operazioni al secondo, si parlerebbe di una rete AI di proporzioni astronomiche.
La prospettiva ribalta la logica dei data center tradizionali. Invece di concentrare la potenza in pochi poli energetici, Musk propone una distribuzione capillare che ridurrebbe i costi e la latenza, sfruttando un’infrastruttura già esistente. È una visione che combina la filosofia del cloud con quella dell’Internet delle Cose, portando l’elaborazione dove i dati nascono: sull’asfalto, nei parcheggi, tra le mani dei consumatori.
Pensare che l’auto, simbolo novecentesco di libertà individuale, diventi oggi strumento collettivo di calcolo può sorprendere molti. Ma nel mondo di Musk, ogni oggetto con un processore è una risorsa monetizzabile. Gli automobilisti potrebbero trasformarsi in piccoli investitori digitali, con rendite passive provenienti dal proprio garage. Un TeslaBot in miniatura, ma su ruote.
La mossa, però, va letta anche in chiave strategica. Mentre il settore tecnologico soffre i limiti energetici e di approvvigionamento dei data center, Tesla potrebbe costruire un network distribuito senza investire miliardi in nuove infrastrutture. Ogni auto diventa parte di un supercomputer diffuso, aggiornabile over-the-air, pronto a scalare senza colli di bottiglia fisici. È la perfetta sinergia tra hardware, software e strategia industriale.
Non mancano però i paradossi. L’idea di far lavorare la propria auto per addestrare algoritmi potrebbe sollevare questioni di privacy, sicurezza e usura delle batterie. Senza contare che la gestione energetica di milioni di nodi mobili richiederebbe un coordinamento e una sicurezza di rete da livello militare. Ma chi conosce Musk sa che le sfide logistiche non lo spaventano: le considera carburante narrativo.
Se Tesla riuscisse a concretizzare questa visione, il concetto stesso di proprietà dell’auto cambierebbe. Il veicolo non sarebbe più solo un mezzo di trasporto, ma un asset digitale, un’unità economica autonoma capace di generare valore. È la logica del capitalismo algoritmico, dove ogni dispositivo connesso partecipa a una nuova economia dell’intelligenza artificiale.
Qualcuno potrebbe liquidare tutto questo come marketing futurista. Ma è lo stesso errore commesso da chi, vent’anni fa, rideva dei server in garage di Google. Oggi, mentre Nvidia domina la corsa ai chip e Microsoft investe miliardi in AI infrastructure, Musk disegna un modello che sfrutta la massa critica della sua flotta per costruire un supercomputer globale senza costruirlo davvero. Una mossa da scacchista industriale, non da semplice visionario.
Forse il futuro non sarà fatto di giganteschi data center immersi nel deserto, ma di milioni di Tesla addormentate nei vialetti suburbani, che di notte sognano algoritmi. In quel sogno, ogni auto sarà parte di una rete cerebrale che non trasporta solo persone, ma intelligenza. E come spesso accade con Musk, il confine tra follia e profezia è soltanto questione di tempo.