McKinsey & Company ha intervistato 1.993 professionisti in 105 Paesi per capire come l’intelligenza artificiale stia ridefinendo il panorama globale nel 2025. Il verdetto? L’AI è ovunque, ma il valore no. La febbre da automazione ha contagiato il pianeta, eppure la maggior parte delle aziende resta impantanata tra esperimenti e prototipi, incapace di scalare davvero. Quasi due terzi dei rispondenti ammettono di non essere ancora riusciti a integrare l’AI a livello enterprise. È un po’ come avere una Ferrari parcheggiata in garage e non sapere dove sia la chiave.

Il dato più curioso è l’esplosione di interesse per gli agenti AI. Sessantadue per cento delle organizzazioni sta almeno sperimentando con questi sistemi autonomi, nella speranza che automatizzino processi e decisioni. È il nuovo totem della produttività, ma il rischio è quello di innamorarsi dello strumento dimenticando la strategia. Gli agenti conversano, apprendono e agiscono, ma pochi si chiedono se stiano davvero risolvendo problemi o solo moltiplicando complessità.

Un elemento positivo emerge sul fronte dell’impatto operativo. Il 64 per cento dei partecipanti riconosce che l’AI sta accelerando l’innovazione, generando benefici misurabili in alcuni casi d’uso. Tuttavia, solo il 39 per cento dichiara un impatto sull’EBIT aziendale. In altre parole, l’AI crea valore a livello locale ma fatica a scalare a livello sistemico. È il classico paradosso della tecnologia: più esperimenti, meno risultati concreti.

Le aziende realmente performanti, quelle che McKinsey definisce “high performers”, usano l’intelligenza artificiale non solo per ridurre i costi ma per stimolare crescita e innovazione. Ottanta per cento di loro pone l’efficienza tra gli obiettivi principali, ma i migliori affiancano anche metriche di espansione e differenziazione. Non si tratta solo di automatizzare, ma di ripensare modelli di business. Il vero vantaggio competitivo non è più l’adozione, ma l’orchestrazione.

Un’altra evidenza interessante riguarda il ridisegno dei flussi di lavoro. Metà delle aziende più avanzate dichiara di usare l’AI per trasformare i processi in modo profondo, non solo per aggiungere strati di tecnologia. Significa rivedere ruoli, responsabilità, flussi decisionali e persino la cultura organizzativa. Chi si limita a inserire l’AI come un plug-in finisce per non spostare nulla.

Sul fronte occupazionale il quadro è frammentato. Il 32 per cento degli intervistati si aspetta una riduzione della forza lavoro, il 43 per cento non prevede cambiamenti significativi e solo il 13 per cento immagina un incremento. È un segnale che il futuro del lavoro non sarà unidirezionale: l’AI distrugge alcuni ruoli ma ne genera altri, spesso più qualificati e strategici. La questione non è se l’AI sostituirà l’uomo, ma chi imparerà più in fretta a usarla.

Il messaggio implicito del report è chiaro: l’intelligenza artificiale non è più un vantaggio competitivo in sé. L’accesso alla tecnologia è democratizzato, la differenza la fa la capacità di execution. Tutti hanno AI, ma pochi hanno la disciplina per renderla produttiva. È una lezione che riecheggia nelle boardroom globali: il valore non nasce dall’algoritmo, ma da come si ridisegna l’organizzazione intorno ad esso. Chi continuerà a trattare l’AI come un esperimento finirà per diventare parte delle statistiche, non dei leader.

Full report https://www.mckinsey.com/capabilities/quantumblack/our-insights/the-state-of-ai#/